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Uno dei peggiori errori che ho fatto

Come tutti, faccio tanti errori. Conto di essere al di sotto della mediana, e probabilmente anche della media delle persone, visto che cerco di pensare un po’ prima di dire qualcosa, ma non è sempre così semplice. Ma alcuni anni fa ho commesso un errore madornale, e non sarebbe giusto che ora facessi finta di niente come tanta gente che spera che tutti si siano dimenticati della cosa. (No, la gente non se ne dimentica, e comunque la rete ne tiene traccia e se appena diventi un po’ importante te lo ritrovano subito.) È vero che io non diventerò importante, ma l’onestà intellettuale mi impone di fare coming out, riprendendo meglio quanto scrissi citando Massimo Mantellini.

Probabilmente ricordate la frase di Umberto Eco sui social, che “danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività”. Io ero convinto che sbagliasse: non perché pensassi che la rete fosse così intelligente – d’accordo sbagliare, ma era evidente fin dai tempi di Canter&Siegel che non era certo così – quanto per l’effetto delle legioni di imbecilli. Le due cose che non avevo considerato erano la capacità degli imbecilli di ritrovarsi e coalizzarli, e soprattutto che ci sarebbe sempre stato qualcuno pronto a sfruttare la loro imbecillità per i suoi scopi.

Ciò che manca in rete è l’equivalente degli altri avventori del bar che dicono a chi straparla “Cala, Trinchetto!”. Questo non tanto perché gli imbecilli siano in maggioranza, quanto perché si danno comunque manforte tra di loro, e quindi è inutile fermarli o portarli a pensare a quello che stanno dicendo, perché vedono che c’è gli dà loro ragione. Ed è quello che Eco aveva visto e io no, se non qualche anno dopo. Ora è una vita che sono disilluso, ma il mio peccato originale resta.

Aggiungo solo che la situazione è probabilmente ancora peggiore di quanto pensasse Eco: chi imbecille non è tende sempre più a isolarsi in “riserve indiane”. No, non sono echo chamber, perché chi le frequenta non è sempre d’accordo: ma resta il fatto che siamo arrivati all’opposto della metafora del bar, nel senso che gli avventori normali sono irrisi dagli altri.

Ultimo aggiornamento: 2025-08-11 10:00

“not interested”

Io avrei un account Instagram, ma non lo uso da prima del Covid: ho capito che postare miei video non fa per me. Però non cancello l’account perché altrimenti da desktop non potrei vedere l’eventuale post pubblicato da qualcuno. L’altro giorno mi è capitato proprio questo: evidentemente era un bel po’ che non mi connettevo, perché Meta mi ha chiesto se volevo pagare per non vedere pubblicità oppure non pagare e cuccarmi gli spot. Inutile dire che cosa ho scelto: meno inutile raccontare che a questo punto la piattaorma mi ha detto “ok, ti setto l’accesso come povery e poi ti permetterò in una schermata successiva di scegliere se vuoi la pubblicità personalizzata oppure no.”

La schermata successiva in effetti c’è stata, ma preceduta da un’altra schermata in cui ti si offriva di far mettere a posto le cose da Instagram e solo dicendo di non essere interessati si arrivava all’agognata schermata “vuoi tu la pubblicità carina o quella schifosa non personalizzata?”. Sono abituato a vedere interfacce utente che cercano di convincerti a fare quello che vogliono loro, ma devo ammettere che stavolta hanno superato sé stessi!

Ultimo aggiornamento: 2025-07-29 09:14

Privacy, diritti e voyeurismo

Lunedì scorso Andrea Monti ha scritto un articolo su due casi apparentemente diversi, ma con una matrice comune: l’amministratore delegato della software house americana Astronomer colto con l’amante dalla kisscam del concerto dei Coldplay, e la causa vinta dal fotografo italiano Gianni Minisichetti contro Meta per non avere cancellato da Facebook le varie copie di foto coperte dal diritto d’autore che il fotografo scattò a Oriana Fallaci. I giudici hanno deliberato che le segnalazioni di Minisichetti erano sufficientemente dettagliate perché Meta prendesse azioni una volta che la cosa fosse stata loro segnalata, e che le immagini, spesso usate come base di un meme, ledevano anche i diritti morali dell’autore. Nel caso Coldplay la cosa funziona alla rovescia, ma il principio è lo stesso: quando compri il biglietto per il concerto c’è scritto che puoi essere inquadrato, e soprattutto – e questa è la cosa che accomuna i due casi – i diritti delle immagini sono dei fotogratanti e non dei fotografati, che possono opporsi alla pubblicazione solo se non viene rispettata la dignità della persona,

Come al solito, io preferisco guardare di sghimbescio e notare un paio di cose. La sentenza contro Meta non ha praticamente avuto risonanza: decidete voi se perché nessuno se l’è filata o perché l’algoritmo di Meta non fa vedere i post al riguardo. Io penso più alla prima. In compenso i vari guardoni hanno parlato per giorni della storia dei due amanti, anche se penso che nessuno avesse mai sentito parlare prima della settimana scorsa di Astronomer. (Io almeno no). Insomma, si è parlato di qualcuno che sarebbe famoso perché c’è stato chi l’ha definito così e quindi tutti ci hanno creduto: ok, possiamo dire che è la stessa cosa che succedeva con la televisione, ma lì almeno il Carneade di turno era d’accordo… Ormai non abbiamo più i quindici minuti di fama promessi da Andy Warhol, ma la settimana di shame; e soprattutto in questo modo non ci accorgiamo delle altre notizie.

Idee opposte

Ve lo ricordate quando Umberto Eco disse “I social network sono un fenomeno positivo ma danno diritto di parola anche a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Ora questi imbecilli hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”? Probabilmente sì, perché i miei ventun lettori non sono anzyani come me ma hanno comunque una certa qual esperienza in rete.

Ieri Massimo Mantellini (di nuovo: i miei ventun lettori, ecc. ecc.) ha scritto un lungo post in cui afferma di aver cambiato idea su quel giudizio: al temo era d’accordo con Eco, ora pensa che il semiologo avesse torto. Più precisamente, Mantellini dice

Ciò che Eco non poteva immaginare è un fenomeno che si è sviluppato compiutamente qualche anno dopo la sua morte e cioè che gli imbecilli nelle loro varie estensioni sono diventati un format comunicativo dei grandi media: il rischio paventato dal semiologo si è in parte concretizzato non per colpa di Internet ma per colpa dei media mainstream nel momento in cui ci si è resi conto che l’idiota faceva più ascolti dell’esperto.

Ma soprattutto,

Il professore intendeva dire altro e cioè che le reti digitali offrono uguale visibilità alle parole di un ubriaco e a quelle di una persona molto autorevole. Questo ovviamente, anche volendola considerare un’iperbole seduttiva, non è vero. Non è vero oggi e non è mai stato vero, nemmeno nel momento in cui la tempesta dei social network interessava più direttamente la società italiana. Nelle reti digitali l’imbecille per la prima volta ha potuto costruirsi una sua piccola audience, numericamente superiore a quella degli avventori del bar ma – in genere – non tanto più ampia.

La cosa divertente è che io compiuto esattamente il percorso opposto. Dieci anni fa pensavo che le parole buttate al vento, anche se visibili a tutti, non avevano poi chissà quanta rilevanza, ma ormai sono convinto che invece siano rilevanti. Certo, gli imbecilli sono diventati un format comunicativo dei media: me ne accorgo anch’io che i media li seguo ben poco. Ma il punto di partenza restano sempre i social network, e non tanto le discussioni quanto il seguito di coloro che scrivono apposta per attirare gli imbecilli di cui sopra, che subito ripetono quanto letto per mostrare che loro sì che sanno essere fuori dal coro. Poi, essendo appunto io anzyano, ho perso da un pezzo ogni speranza che le cose cambino, e non ci tento nemmeno.

(Poi vabbè, un’altra cosa che non mi accomuna con Massimo è che io sono troppo pigro per scrivere più di una dozzina di righe :-) )

Ultimo aggiornamento: 2025-07-21 12:02

Avremo pubblicità su Whatsapp?

Non so se vi ricordate, ma inizialmente Whatsapp era a pagamento. Un prezzo simbolico, meno di un euro l’anno, ma comunque era a pagamento. Poi Zuckerberg se l’è comprato per far fuori un pericoloso concorrente: a differenza della buonanima di Friendfeed, però, l’ha tenuto perché complementare a Facebook, limitandosi a togliere il balzello dell’abbonamento che gli sarebbe costato troppo in burocrazia.

Ma i costi sono costi: così Meta ha deciso di introdurre la pubblicità in Whatsapp; per il momento solo sul tab Updates (immagino quello che in italiano è Aggiornamenti, e che non apro mai), ma si sa che una cosa tira l’altra, e chissà che succederà. Già si parla di pubblicità sui canali. A dire il vero Telegram inserisce pubblicità nei canali già da anni, e nessuno si è lamentato più di tanto che io sappia: l’unico rompimento è che le pubblicità sono sempre le stesse, e sempre di criptovalute di cui non me ne può importare di meno.

La cosa probabilmente più interessante è però che nell’Unione Europea l’introduzione di questa “feature” arriverà più tardi. Come mai? Perché le regolamentazioni europee sono più stringenti, e Meta deve dimostrare che è in grado di mandarti pubblicità mirate (hahaha…) senza andare contro il GDPR. Capite perché tutti questi signori non sopportano l’Europa, che va bene giusto per sposarsi?

Social ineliminabili

Viva Engage
La mia azienda ha deciso di legarsi mani e piedi a Microsoft. Per dire, la nostra intranet si trova in un sottodominio di sharepoint.com. Vabbè, finché mi pagano il 27 del mese non posso lamentarmi più di tanto.

Nel pacco (package) che ci hanno dato, c’è anche il social network aziendale, Viva Engage (noto in passato come Yammer). Non che ci si scriva in tanti. L’altro giorno un collega ha chiesto – non so se per boutade o se lo voleva davvare fare – se era possibile disiscriversi; ho fatto una rapida ricerca e ho scoperto che è impossibile. Se l’azienda ha acquistato una licenza d’uso di Viva Engage tu ci devi stare, volente o nolente. Il massimo che ti viene benignamente concesso è di non avere nessuna notifica e quindi fare finta di non esserci…

Carino, vero?

Certo, virgola, certo

"Mark turro" E io dovrei credere che @Make60739344 sia il “Personal assistant to Elon musk for social media management.”? Un po’ come ieri “Paul Krugman Newsletter” che risponde a un mio commento di tre settimane fa sul substack di Krugman qualcosa che cominciava “Maurizio, I know this message sounds crazy but I’ll be glad if you don’t mind texting me on what’s app! I have something to share with you.” e poi aveva un numero di telefono da chiamare. (il messaggio con quelli uguali scritti ad altri commentatori è stato poi cancellato, non ho idea se da Substack o dal vero Krugman)

Mentre sono abbastanza certo che c’è chi casca agli spam sgrammaticati e chi pensa che le signorine più o meno discinte siano davvero interessate a noi (e davvero signorine), mi chiedo se questo tipo di phishing porta davvero a qualche risultato per chi lo fa. Ma mi sa di sì.

Ultimo aggiornamento: 2025-06-15 18:53

La conoscenza del digitale

Il mio amico Marco Renzi, giornalista da una vita attento al mondo del digitale, qualche giorno fa mi ha mandato questo suo testo riguardo alla conoscenza del digitale, che (parole sue) non è il «falso presente digitale che ci raccontano – meglio dire spacciano – le holding tecnologiche multimiliardarie interessate solo a detenere il controllo», ma «il passaggio epocale che ha reso il mondo un posto “calcolabile”.» Io concordo con quanto (anche se un po’ apocalittico) ha scritto Marco, soprattutto sulla parte delle “due conoscenze” che ripropone in chiave contemporanea il famigerato concetto delle due culture. Aggiungo però qualche mia considerazione personale.

Per prima cosa comincio col notare che non è che i nativi digitali siano poi così bravi anche nella conoscenza digitale: lo vedo con miei figli (ok, io sono un pioniere digitale quindi le cose le ho viste nascere e crescere, sono avvantaggiato). Loro sanno semplicemente usare le cose nel modo standard, e una qualunque deviazione li manda in tilt… più o meno come quello che succede a me se l’auto si pianta mentre sto guidando. In effetti la conoscenza (mia nel caso del funzionamento dell’automobile, dei nativi digitali per le app digitali) è puramente procedurale, e quindi di bassa qualità: serve una conoscenza almeno in parte metafisica ed epistemologica, e quindi sul perché e su come le cose funzionano.

Maurizio Codogno, [02/06/2025 13:25]
rileggendo il tuo post mi sono accorto che la prima volta avevo capito male la frase “ogni deviazione da questo percorso di conoscenza” e che tu intendevi “conoscenza del digitale” e non “il digitale ha un unico percorso dal quale non si può sgarrare” (il che è falso).

La difficoltà che io vedo nel dare una conoscenza del digitale è che essa non è “fare informatica”, cosa che comunque è utile di per sé, non foss’altro che perché se impari i rudimenti di programmazione hai a tua disposizione un percorso logico che ti aiuta anche altrove (forse anche più della matematica, almeno per i ragazzi). Secondo me conoscere il digitale significa capire come il digitale è diverso dall’analogico. La prima cosa che mi viene in mente è che nell’analogico tu hai automaticamente delle tolleranze, proprio perché hai un movimento continuo e non discreto; nel digitale invece lo sviluppatore deve prevedere a priori delle tolleranze. Esempio cretino: quando inserisci in un form il numero di carta di credito, il sistema, e quindi lo sviluppatore, deve fare in modo che se io digito degli spazi tra i gruppi di cifre è il software che deve toglierli, e non lamentarsi perché hai finito i 16 caratteri a disposizione. Peggio ancora con il codice fiscale: anche lì la conversione minuscolo-maiuscolo dev’essere qualcosa che fa il software, e in compenso non bisogna esagerare con il controllo sintattico di cifre e lettere, perché si rischia di non accettare codici modificati per omocodia. Ribadisco: per me la grande differenza tra analogico e digitale è che in quest’ultimo non puoi permetterti il minimo sbaglio. Insomma, per me la conoscenza del digitale è sapere che tu puoi simulare quanto vuoi il risultato ma devi essere certo che la simulazione sia corretta; spostandoci dallo sviluppatore all’utente, è sapere che la logica interna a un software è quella, e se non corrisponde a quello che vuoi fare tu allora devi cercare un modo per fregare il software. Questa è un’altra cosa che per noi pionieri digitali è una seconda natura, tra l’altro.

Il guaio è che non ho idea di come insegnare queste cose. Io le ho imparate sul campo, ma 40 anni fa la situazione era molto diversa. (E comunque io sono probabilmente borderline Asperger, quindi con il digitale ero favorito, proprio perché non dovevo preoccuparmi del non detto: tutto quello che serviva ce l’avevo davanti a me…) Voi avete qualche idea su come si possa farlo, sia per gli studenti che per gli adulti?