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La storia sui brevetti software

Qualche notizia in più sul tentativo di far passare la procedura sui brevetti software all’Unione Europea. Queste informazioni me le ha passate uno dei miei corrispondenti bruxellesi – conosco tanta gente :-)
La procedura istituzionale, molto semplificata, è la seguente:
– La Commissione, che ha il “potere di iniziativa”, produce una proposta di direttiva, che sottopone al Consiglio e al Parlamento;
– il Parlamento Europeo, dopo averla studiata nelle commissioni parlamentari, vota gli emendamenti alla proposta (delle commissioni parlamentari e dei singoli europarlamentari);
– il Consiglio (o meglio il COREPER, i rappresentanti permanenti), prepara una posizione di compromesso fra Consiglio e Commissione; posizione che, una volta che viene raggiunto un accordo politico, deve essere ratificata dal Consiglio;
– la posizione di compromesso torna al Parlamento Europeo in seconda lettura: per cambiarla, gli emendamenti devono avere la maggioranza degli aventi diritto al voto (e non dei presenti come in prima lettura).
Il problema è che nel caso di questa direttiva, il Parlamento Europeo, su pressione degli elettori, associazioni PMI, FFII, e altri, ha presentato una serie di emendamenti che hanno parzialmente limitato la brevettabilità, invece di armonizzarsi con le pratiche in vigore negli USA, come era l’obiettivo della Commissione (DG-MARKT). Un simpatico aneddoto: la copia della proposta iniziale della Commissione, come si è visto guardando il file word, era stata fatta con una copia MSWord licenziata alla BSA…
Il Consiglio, nel maggio scorso ha preparato (guarda caso sotto la presidenza irlandese) una proposta di compromesso. Peccato che non fosse quello che ci si potrebbe aspettare da un compromesso, ma anzi cancellava gli emendamenti del
Parlamento. Insomma, se possibile, ancora più estremo rispetto alla proposta iniziale. Su questa proposta era stato strappato (è il caso di dirlo) un accordo politico, ma se ne era rimandata la ratifica.
Nel frattempo la maggioranza che sosteneva la ratifica era stata erosa, a causa della modifica dei pesi dei paesi dopo l’entrata in vigore del nuovo trattato e del cambio di posizione degli “swing states”. Il Consiglio ha tentato più volte di fare approvare la “sua” proposta, nonostante non ci fosse più una maggioranza, mettendola in agenda come item-A per il quale non occorre un voto esplicito. Si è riusciti più volte fortunosamente a farla togliere dall’agenda.
Il prossimo tentativo è la settimana prossima, al consiglio competitività del 7/3, dove pare che il Consiglio abbia avuto l’assicurazione che nessun paese si opporrà e il punto rimarrà in agenda.
Nel frattempo il Parlamento Europeo, sapendo che è praticamente impossibile riuscire a modificare il testo in seconda lettura, ha chiesto per la prima volta nella storia di applicare l’articolo 55 del regolamento, dove si chiede di fare ripartire la procedura legislativa dall’inizio, visto che sono cambiate le condizioni. Questa richiesta è stata fatta dalla commissione affari istituzionale quasi all’unanimità (19 sì, 1 no, 1 astenuto), e dai capigruppo dei gruppi politici all’unanimità. Purtroppo Commissione e Consiglio non hanno l’obbligo di accettare la richiesta del Parlamento Europeo (sostenuta anche da molti parlamenti nazionali), e la Commissione non ha alcuna intenzione di tornare indietro.
Se volete maggiori informazioni la procedura e gli eventi sono descritti in dettaglio nei seguenti siti:
PdCI
ffii (inglese, francese, tedesco, portoghese)
nosoftwarepatents

Ultimo aggiornamento: 2005-03-02 12:12

Ancora brevetti software

Ho già parlato di come la Commissione Europea voglia a tutti i costi fare passare la brevettabilità del software. L’ultimo tentativo, un mese fa, era consistito nel mettere l’approvazione all’ordine del giorno di una riunione… dei ministri dell’agricoltura e della pesca. Tenete conto che la direttiva in questione è già stata bocciata dal Parlamento Europeo, tra l’altro.
Bene, ci vogliono riprovare ancora una volta. Con un trucchetto che fa venire in mente quello che spesso capita a casa nostra, il commissario al mercato interno vuole fare approvare al prossimo ECOFIN, che si terrà il 7 marzo, il pacchetto originale, con la scusa che “è già stato discusso in Consiglio”. Che il pacchetto sia stato bocciato dall’Europarlamento è a quanto sembra un punto secondario per l’ineffabile commissario Charlie McCreevy (niente pagina in italiano, mi spiace). D’altra parte McCreevy è irlandese, e come magari già sapete l’Irlanda ha avuto negli ultimi anni uno sviluppo fantastico perché molti produttori di software l’hanno scelta come base europea per la localizzazione dei propri programmi. Qui (sì, sempre in inglese, mi spiace) si scopre che nel 2001 il 10% delle imposte giuridiche irlandesi sono state pagate da un’unica società: Microsoft. Direi che a pensare male forse si fa peccato, ma anche in questo caso ci si potrebbe azzeccare, no? E se non siete ancora convinti – e leggete l’inglese – ci sono altre informazioni da NoSoftwarePatents.
Ciò detto, che fare? C’è una proposta: scrivere tutti al proprio europarlamentare – magari lasciando perdere Santoro che si sta dimettendo per tornare in TV… – e chiedergli di promuovere una mozione di sfiducia. L’elenco dei parlamentari per nazione e gruppo parlamentare si trova qui; ho lasciato un testo possibile di lettera qua.

Ultimo aggiornamento: 2005-02-25 17:38

Soluzioni all'italiana 2: posta elettronica certificata

A fine gennaio c’è stato un certo qual fermento giornalistico, quando il ministro dell’Innovazione ha presentato il DPR sulla Posta Elettronica Certificata, PEC per chi ha fretta. Stanca si è premurato di farci notare come l’Italia sia “tra i primi Paesi al mondo a disporre della posta elettronica certificata”, insomma della “raccomandata elettronica” come tradotto dai giornali. Volete poi mettere? con doppio controllo antivirus! Cintura e bretelle!
Il comunicato del CNIPA (come? non sapete che cos’è? È il Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione) è disponibile qua, per gli amanti della burocrazia. Io personalmente mi sono divertito ad andare un po’ a sfrucugliare sul testo del decreto in via di pubblicazione. A dire il vero ho anche guardato l’allegato tecnico che è stato opportunamente tolto dal sito, ma non divaghiamo. E se ne scoprono delle belle.
Il concetto di “raccomandata” è legato alla consegna della lettera, non a un eventuale contenuto: Posteitaliane non sta certo a verificare se tu mandi un foglio bianco. Sarebbe stato bello che nella trasposizione elettronica venisse sfruttata la possibilità di raccomandare anche il testo del messaggio, ma la cosa non è stata fatta. Amen. Non che al ministero non conoscano l’esistenza di queste simpatiche cose: i gestori devono infatti apporre sulle ricevute la propria firma elettronica.
Ma fossero tutti qua i problemi! È infatti istruttivo scoprire all’articolo 3 che

Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore.

Letto? Compreso? Pensate adesso alla vecchia raccomandata cartacea. Arriva il postino, non ti trova e mette l’avviso sulla buca; tu non apri la buca delle lettere e dopo un mese le poste rimandano la raccomandata al mittente con indicato “non ritirata”. Se è solo per questo, tu puoi anche guardare la busta e dire al postino “no, non la accetto”. Non è un atto giudiziario: è tuo pieno diritto rifiutarla. In questo caso, niente da fare: non appena il tuo provider ha messo il messaggio a tua disposizione per essere ritirato con POP, il messaggio è considerato “ricevuto”. Tu non ti sei connesso perché hai dimenticato la tua password? peggio per te. La “firma di ricezione” è quella del provider, non la tua. l’articolo 6, comma 5, lo ribadisce per chi fosse tardo di comprendonio: “La ricevuta di avvenuta consegna è rilasciata contestualmente alla consegna del messaggio di posta elettronica certificata nella casella di posta elettronica messa a disposizione del destinatario dal gestore, indipendentemente dall’avvenuta lettura da parte del soggetto destinatario” (neretto mio).
Ma forse ancora peggio è scoprire chi può fare da gestore di PEC, oltre alle pubbliche amministrazioni. Una persona di buon senso direbbe che i requisiti sono essere affidabili, e magari avere un’assicurazione che copra i rischi dell’attività. Siamo in Italia, e magari una certificazione – il “pezzo di carta” – è un pizzo che bisogna pagare per far vedere che almeno ufficialmente si è bravi. Naturalmente occorre tutto questo, ma (articolo 13, comma 3) occorre anche essere una società di capitali, e avere capitale sociale interamente versato di almeno un milione di euro. Traduzione: solo i soliti noti potranno fornire il servizio. Che gli altri si limitino a giocare nel recinto. Nota: sono due anni che si lavora a questo decreto, e “casualmente” questa norma è stata aggiunta solo adesso. D’altra parte non è certo una specifica tecnica, quindi non c’è alcun problema, no? e poi tutti i “piccoli” hanno potuto dare un prezioso contributo lavorando alle specifiche, anche questo è un lavoro di gruppo!
L’unica cosa che per il momento dà qualche speranza è che non siamo affatto obbligati nemmeno implicitamente a usare la PEC. L’articolo 4 recita infatti che un privato che la voglia usare lo deve indicare esplicitamente e per ogni procedimento; addirittura si ribadisce che se è semplicemente indicato il proprio indirizzo PEC, non è un’indicazione esplicita di volontà d’uso. Ma si sa come vanno queste cose: una modifichina “per semplificare” è sempre dietro l’angolo…
Insomma, saremmo anche tra i primi nel mondo, ma forse si poteva lasciar perdere. L’unico vantaggio possibile che vedo oggi è nella comunicazione interna alla pubblica amministrazione. Intendiamoci, non è poco, ma nemmeno quella svolta epocale.

Ultimo aggiornamento: 2005-02-09 16:55

lucro e profitto

Scopro da Massimo che l’onorevole Dario Franceschini ha un blog, la qual cosa non mi fa né caldo né freddo. Quello che mi infastidisce è una cosa molto più grave. Franceschini parla infatti di una sua proposta di legge sui CD musicali, terminando dicendo che la proposta inasprirebbe le pene per chi viola il diritto di autore “duplicando o riproducendo per fini di lucro cd musicali originali per destinarli al mercato nero” (neretto mio).
Sempre sul suo sito si può leggere la proposta di legge. Che si scopre? innanzitutto che la legge sul diritto d’autore del 1941 oramai è stata così modificata che forse converrebbe riscriverne una ex novo semplicemente copiandola rinumerando gli articoli. Abbiamo ad esempio dopo l’articolo 171 i vari 171 bis, 171 ter, … 171 novies, che non pensavo nemmeno esistesse la parola latina per “nove volte”. E la proposta aggiungerebbe un articolo “171 bis.1”. Poi vediamo scritto che nel primo comma dell’articolo 171 ter “le parole «per trarne profitto» sono sostituite da «a fini di lucro»”, il che non si comprende visto che la legge attuale ha scritto “fini di lucro”.
Nel migliore dei casi, Franceschini non si è accorto del testo della legge (o il Ministero della Giustizia ne ha in linea una copia errata). Nel peggiore, ha scritto nel commento che si parla di lucro, mentre in realtà vuole parlare di profitto. E la cosa è ben diversa: il lucro è “guadagnarci dei soldi”, mentre il profitto è “avere un utile di qualunque tipo, anche non pecuniario”. È lecito decidere di voler perseguire solo il lucro o anche il profitto, ma una persona laureata in giurisprudenza non può far finta di niente e confondere i due termini. Ci vuole chiarezza.
Aggiornamento: In effetti il testo al ministero della Giustizia è sbagliato, come mi è stato fatto notare nei commenti. La legge 128/04 (la legge Urbani, insomma) ha cambiato il testo del 171-ter da lucro a profitto, quindi Franceschini con la sua proposta tenderebbe effettivamente a cancellare quella modifica e ritornare alla vecchia “fini di lucro”. Potete guardare il testo sperabilmente corretto su Interlex.
Aggiornamento 2: la versione iniziale del testo di Franceschini aveva lasciato i fini di lucro, quella che ho poi letto oggi invece aveva inserito la modifica inserendo il fine di profitto. Resta sempre il fatto che il sito del ministero della Giustizia non è aggiornato.

Ultimo aggiornamento: 2005-01-17 14:19

abbassa la tua radio per favore

No. È possibile che tu debba spegnerla, almeno se seguivi Radio Rai nelle onde medie. Ci avevo fatto caso in questi giorni in cui eravamo in giro: l’unico canale che si pigliava in onde medie era Radiouno sui 900 kHz. Questo ripetitore dovrebbe inviare il segnale sicuramente almeno in tutta Europa e nel bacino del Mediterraneo; mi pare addirittura che quella frequenza sia assegnata all’Italia in sede mondiale, quindi senza timore che venga riutilizzata da un’altra nazione.
Pensavo a un semplice problema della radio nella mia macchina, ma non è così: oggi una pagina di Repubblica cartacea raccontava come la Rai avesse brutalmente tagliato le emissioni in onda media. No, non era un articolo che meritasse di passare nell’edizione in rete.
Ho così fatto alcune ricerchine, e ho scovato la pagina RAI con la notizia. Bella nascosta in fondo alla pagina, viene detto che “La Rai, in linea con la missione del servizio pubblico, sta attuando un piano di razionalizzazione degli impianti di trasmissione in onda media. L’iniziativa comporta l’unificazione delle attuali tre reti.” È chiaro che a questo punto la missione del servizio pubblico non richiede di avere più di un canale radiofonico in onda media: non importa che in molti posti, come ad esempio qui a casa mia, le trasmissioni in modulazione di frequenza siano disturbate. Le onde medie sono il passato, il futuro è il digitale terrestre per i pochi fortunati… bah.
Il comunicato con le frequenze in onda media risparmiate lo trovate qua.
Ma perché questo odio? C’è chi pensa che sia semplicemente una manovra per fare fuori la radio, che non sarebbe allineata. Altri affermano che la manovra è stata fatta per abbassare le potenze impiegate, a causa della famosa legge sull’inquinamento elettromagnetico che non tocca solamente le antenne per i telefonini, ma anche i ripetitori radiotelevisivi. Lasciatemi avere qualche dubbio su questo. Per chi si fida dei dati riportati, uno studio del CNR di Firenze dà una stima di quanta distanza occorra dai ripetitori per scendere sotto il limite di 6V/m richiesto dalla legge italiana. Per un ripetitore da 100 kW, occorrono 300 metri; per 1000 kW, si sale a 900 metri. Per dare un’idea delle potenze, le RSU Rai affermavano nel 2001 che la potenza impiegata dal ripetitore di Milano Siziano (che poi Siziano è in provincia di Pavia…) ed erano “uniche in Italia”: uno si chiede quindi perché mai bisognava togliere le altre. Senza contare che, secondo quelli di EDXC, la Rai (e il Vaticano…) stanno usando delle antenne nel Principato di Monaco per eludere la legge italiana. Evviva.

Ultimo aggiornamento: 2004-06-02 20:00

la centrale solare

Anche se Iaia sembra convinta scettica ma più speranzosa, ho parecchi dubbi sulle centrali a energia solare proposte da Carlo Rubbia.
Non entro nel merito della tecnologia, non ne saprei certo abbastanza. Mi piacerebbe comunque sapere qual è il rendimento dei sali utilizzati per “salvare l’energia” e se funzionano anche a temperature molto più basse con un buon rendimento: in questo modo potremmo modificare l’uso delle centrali idroelettriche, che come non molti sanno la notte pompano in alto l’acqua per immagazzinare energia nei momenti di basso utilizzo, avendo però un rendimento scarsissimo.
Faccio solo notare che l’articolo dice che “Basta un quadrato di tre chilometri di lato, la lunghezza di una pista di aeroporto, per ottenere la stessa energia di una centrale nucleare”. Una centrale nucleare moderna impegna sui 1000 MW (dati svizzeri). Non sto a sindacare sul fatto che quella sperimentale a Priolo abbia una potenza pari a un cinquantesimo, è chiaro che è un esperimento e spero che la cosa sia scalabile. Quello che mi preoccupa è che la pista di aeroporto è sì lunga tre chilometri, ma non è larga così: e anche contando il terreno ausiliario, abbiamo per lo più prato. Un quadrato di tre chilometri di lato sono novecento ettari. Per darvi un’idea, il parco Nord a Milano sono seicento ettari, il parco di Stupinigi a Torino (non il pezzetto del castello!) sono milleseicento ettari, villa Pamphili che è il più grande parco urbano romano sono centoottanta ettari. Pensate a tutti quegli specchi e all’impatto…

Ultimo aggiornamento: 2004-05-19 12:33