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Fahrenheit

Oggi sulla Stampa a pagina 2 si parla della nuova spinta di Obama per una riduzione delle emissioni di monossido di carbonio. Con una sintassi un po’ involuta, si legge «il riscaldamento globale è avviato a superare un aumento medio delle temperature di 3,6 gradi Fahrenheit».

Se io leggo “3,6 gradi Fahrenheit” traduco immediatamente “2 gradi centigradi”; applicando il rasoio di Occam nella sua versione “cifre tonde”, ne deduco che il documento originale usava i centigradi, gli americani che rifuggono gli standard mondiali se non li hanno creati loro hanno meccanicamente convertito in Fahrenheit, e Paolo Mastrollilli ha coscienziosamente copiato il valore senza rendersi conto di quello che faceva.

D’altronde è vero che non si ha certo l’obbligo di conoscere a memoria i rapporti di conversione; ma è ancora più vero che tipicamente non si sa a cosa equivalga un grado Fahrenheit, e dunque sarebbe comunque stato un gesto gentile nei riguardi dei lettori convertire la temperatura in centigradi…

P.S.: a pagina 3 nel colonnino di destra si parla di due gradi centigradi. Evidentemente non hanno preso il documento americano.

Ultimo aggiornamento: 2015-08-03 11:13

i guai del catasto

Ho iniziato a leggere – fino a domani niente testo completo, ma non credo cambierà molto – questo articolo di Repubblica sulla riforma del catasto che sembra essere di nuovo saltata. Le simulazioni darebbero «numeri pazzeschi, con le rendite che lievitano, in alcuni casi esplodono. Mettendo a rischio l’invarianza di gettito, caposaldo della delega stessa», e questo «nonostante lo sconto del 30%, inserito nel decreto per attutire i rialzi.»

Io che sono un’anima candida pensavo che in tutti questi anni i dati catastali fossero finalmente stati digitalizzati e quindi più che una simulazione si potesse fare il conto preciso del gettito: a questo punto, invece che dare uno sconto, bastava definire un moltiplicatore catastale per ottenere un gettito totale pari a quello attuale. Detto tra noi sarebbe il modo più semplice anche per il futuro: non si ha un valore catastale ma un coefficiente catastale, che viene moltiplicato per il moltiplicatore (scusate il gioco di parole) per ottenere il valore per l’anno in corso. Ma anche se non ci fossero tutti i dati si potrebbe comunque fare una stima più o meno corretta: non è certo il cinque percento in più che farebbe apparire questi dati allarmanti.

Il vero problema però è la totale mancanza di trasparenza. Dovrebbe essere chiaro a tutti che in una riforma a gettito costante c’è chi ci guadagna e chi ci perde. Se non è chiaro a qualcuno abbiamo un problema. Certo, la politica non è però la matematica, e su questo immagino siamo tutti d’accordo: ma la politica dovrebbe prendere decisioni informate, e spero che siamo tutti d’accordo anche su questo. Bene: perché non vengono resi pubblici dati aggregati che dicano (a) come cambierebbe il gettito per categoria catastale e (b) come cambierebbe il gettito per regione / (ex) provincia / comuni capoluogo / comuni per fasce di popolazione? Con quei dati alla mano si può discutere: magari si scopre che la riforma ha introdotto sperequazioni, oppure si scopre che le sperequazioni erano maggiori (sempre statisticamente parlando) col catasto attuale. Ma almeno si saprebbe di che si parla…

Ultimo aggiornamento: 2015-06-23 12:24

occhei, mi sono perso

Ho cercato di capire cosa intende dire questo articolo, ma non ci sono mica riuscito. La prima frase, attribuita a tal Roberto Brambilla “ideatore del Centro studi” (quale?) ha un senso, in effetti:

«nel 2013 l’Italia ha sostenuto una spesa pensionistica complessiva di ben 214 miliardi, ma l’anno scorso le entrate contributive effettive ammontavano a 189 miliardi. Logico, quindi, il disavanzo (che lo Stato copre a consuntivo) di circa 25 miliardi l’anno».

Poi però leggo

Bene, su quei 214 miliardi di spesa pensionistica effettiva, i soldi concretamente utilizzati per pagare 18 milioni di pensionati ammontano a 171 miliardi. La differenza, pari a ben 43 miliardi di euro, vanno a finire nelle casse dello Stato, rappresentando una partita di giro e un incasso.

e l’articolo finisce lì. Qualcuno che ha studiato riesce a capire cosa vuol dire quella frase?

Certo, uno magari guarda l’inizio dell’articolo, due righe che si perdono tra titolone e immagine: «Quarantatre miliardi di euro. A tanto ammonta la “tassa” che lo Stato intasca sulle pensioni.», e poi legge «Il dato emerge dal secondo rapporto sul “Bilancio del sistema previdenziale italiano”, redatto dal Comitato tecnico scientifico di Itinerari previdenziali.». Se è un rompipalle come me va a vedere che cos’è “Itinerari previdenziali ®” («una realtà indipendente che opera nel campo della comunicazione, formazione e informazione nell’importante settore economico e sociale del welfare e dei sistemi di protezione sociale pubblici e privati.») e poi scopre qui che i 43 miliardi corrispondono alle tasse pagate dai pensionati. Immaginiamo pure che la parte di tasse che i pensionati pagano su redditi extrapensionistici sia irrilevante: quindi lo Stato ha pagato 171 miliardi e ne ha presi 189, quindi il presunto guadagno è solo di diciotto miliardi. Guadagno presunto, perché se quei soldi non fossero stati versati come contributi sarebbero comunque stati tassati, ma non complichiamo vieppiù le cose.

Insomma, è peggio che al Giornale non sappiano fare i conti oppure che non sappiano scrivere un articolo che sia comprensibile senza dover andare in giro a cercare informazioni?

Ultimo aggiornamento: 2015-04-16 10:59

“al netto dei ritardi”

Sul forum di MilanoTrasporti è stato segnalato questo articolo de L’Inkiesta che racconta di come sia possibile usare il passante ferroviario per attraversare Milano velocemente e soprattutto gratuitamente, visto che i controlli sono inesistenti non solo a bordo ma anche ai tornelli. Sulla mancanza di controlli sono perfettamente d’accordo: venerdì scorso ho preso il passante da Repubblica a Segrate con la mia bici (per la quale ho regolamente pagato un altro biglietto), e la controllora sul treno mi ha semplicemente detto “su questo treno non c’è il posto per bici, la metta dove trova spazio”.

Quello su cui non sono d’accordo – e che mostra che Fabrizio Marino qualche problema con la matematica ce l’ha – è questa frase:

La frequenza di ogni linea è di trenta minuti per direzione, ma utilizzando la rete per spostarsi solo all’interno della città, grazie a tutte le coincidenze di linee presenti, è possibile arrivare ad una frequenza di passaggio di un treno ogni 6 minuti. Al netto dei ritardi ovviamente.

Certo, i ritardi ci sono sempre, magari anche solo di un minuto, più spesso di cinque o sei. Peccato che la cosa non abbia nessuna importanza per chi usa il passante “per spostarsi solo all’interno della città”. Mi spiego. Dal punto di vista del pendolare che prende il treno a Novara, Varese, Lodi o Treviglio per arrivare a Milano, se il treno ha un ritardo di quindici minuti lui si trova a stare un quarto d’ora in più sul treno (o ad aspettarlo in banchina, nel caso salga in una stazione intermedia: visto che i treni hanno una frequenza di una corsa ogni mezz’ora uno arriva in stazione all’ora giusta). Dal punto di vista di uno come me che usa il passante all’interno della città, non mi cambia nulla se il treno che prendo è quello di Novara in orario o quello di Varese in ritardo di un quarto d’ora: sempre un treno è. Se dunque i ritardi sono più o meno coerenti – e la mia frequentazione mi permette di dire che solitamente lo sono – io continuerò ad avere una frequenza di un treno ogni sei minuti. Se i ritardi non sono coerenti posso essere sfigato e avere un po’ più di sei minuti di attesa, ma in media i treni continueranno a passare ogni sei minuti. Insomma, anche in questo caso si verifica la solita fonte di incomprensione matematica: bisogna capire qual è il corretto punto di vista da cui fare i conti.

Il vero problema del passante è al limite la possibilità che i treni vengano soppressi: in quel caso sì che le attese si allungano, anche se comunque meno di quanto capiti ai poveretti che devono prendere il treno da fuori… ma questo con la “povera matematica” c’entra poco o nulla.

Ultimo aggiornamento: 2015-03-26 12:32

la crisi dei percentili

Ieri ho portato Jacopo dalla pediatra per una congiuntivite, e mi è stato fatto notare che eravamo solo sette mesi in ritardo per la visita di controllo dei cinque anni. Vabbè. Jacopo viene visitato, ed è tutto ok: mentre la dottoressa segna peso e altezza al computer mi dice che è al venticinquesimo percentile e si affretta ad aggiungere “ma non si preoccupi: i bambini non sono mica tutti uguali”.

A parte che Jacopo partiva dal terzo percentile e quindi arrivare al venticinquesimo è un risultatone, ci ho messo un bel po’ di tempo per intuire cosa significasse quell’affermazione. Con ogni probabilità la pediatra è abituata a sentire gente che si preoccupa perché il proprio virgulto “è troppo piccolo” e quindi “bisogna dargli qualcosa perché cresca di più”, cosa che non ha nessun senso, visto che i percentili sono calcolati non in assoluto ma relativamente alla popolazione tutta. Insomma tutta questa storia mi ricorda le battute “chi vuole essere volontario faccia un passo avanti”, col malcapitato che senza esattamente capire cosa sta succedendo si ritrova cooptato perché tutti gli altri hanno fatto un passo indietro.

Al limite, quello che potrebbe avere un certo interesse è notare come nel tempo ci si sia spostati da un percentile all’altro, perché questo significa che è successo qualcosa. Ma il genitore medio è pronto ad accettare il concetto di derivata?

Ultimo aggiornamento: 2015-03-17 13:52

Potere d’acquisto e conti sbagliati

Da ieri tra i miei contatti Facebook sta girando questo articolo di Marco Ottanelli [ah: usare il javascript per impedire di copincollare il testo è scocciante e inutile]. Ottanelli parte da una tabella dei prezzi medi dei prodotti di ortofrutta rilevati a fine gennaio 1985 a Montecatini e fa un confronto con i prezzi medi riscontrati al supermercato, mostrando come – con la strana eccezione dell’aglio – i prezzi medi siano più bassi oggi che trent’anni fa. La tabella la potete vedere qui. La tesi di Ottanelli è dunque (sì, ho copincollato. Come dicevo, certe tecniche sono scoccianti e inutili)

La favola della bestia nera, l’Euro, e le leggende metropolitane sul suo fattore di impoverimento della gente, si rivelano, ad una analisi sperimentale, del tutto false, scorrette, bugiarde.
I prezzi al dettaglio di alcune delle più diffuse frutta e verdura sono calati vistosamente, o, per meglio dire, il potere d’acquisto che oggi abbiamo è vistosamente più alto del passato. Oggi, con il potere d’acquisto di cui siamo capaci, a parità di spesa, porteremmo a casa il 20, 30, 50% di prodotto in più, e laddove c’è stato un reale aumento, esso è di pochi spiccioli, come già detto, e forse legato a qualche fattore momentaneo.

Tutto vero? Macché. Attenzione: non sto dicendo nulla sull’effettivo miglioramento o peggioramento del potere d’acquisto; mi spiegherò meglio dopo. Quello che sto dicendo è che il ragionamento di Ottanelli è sbagliato a priori. Il problema non è tanto la disparità delle rilevazioni oppure l’avere a disposizione troppo pochi dati per eliminare le distorsioni statistiche che possono sempre esserci: in fin dei conti non è che ci sia bisogno di un risultato così specifico. (Ah, nota a margine: nel caso di conti fondamentalmente spannometrici come questo, si può tranquillamente arrotondare la percentuale di differenza al singolo punto, è inutile usare due cifre decimali) Il punto fondamentale è che lui ha confrontato i prezzi attuali con quelli del 1985 rivalutati per l’inflazione. Il risultato pratico è dunque stato verificare come il costo dei prodotti ortofrutticoli si è comportato rispetto al tasso di inflazione globale: insomma sappiamo che oggi spendiamo (relativamente!) meno per frutta e verdura rispetto a trent’anni fa. Se volessimo calcolare il potere relativo di acquisto, dovremmo come minimo controllare il reddito medio attuale e quello del 1985 e usare quello come punto di riferimento: ma in realtà sarebbe più corretto prendere i dati sul reddito e sulla dimensione delle famiglie allora e oggi, e soprattutto non usare il valore medio ma la distribuzione del reddito. Se ci sono pochi ricconi che sono diventati estremamente più ricchi, il reddito medio magari è cresciuto, ma quello della gente normale si è ridotto…

Come dicevo sopra, io non posso dire nulla di come sia cambiato il potere di acquisto, anche solo limitato ai prodotti ortofrutticoli, in questi trent’anni: quella tabella semplicemente non mi dà dati sufficienti. Quello che però posso dire è appunto che la tabella non ha senso. Purtroppo è troppo facile mettere insieme una serie di numeri per supportare una tesi: basta appunto cucinarli :-) in una certa maniera. Ricordate: la matematica serve per fare modelli, ma non dà mai risposte dirette. Garbage in, garbage out.

Ultimo aggiornamento: 2015-03-04 14:06

Dare i numeri con i libri

Ho letto questa anticipazione sul mercato dei libri 2014, e non ho esattamente capito perché l’Associazione Italiana Editori abbia deciso di presentare i conti in quel modo.

Affermare che la spesa per libri “resta stabile” inserendo nel totale quanto pagato per gli e-reader (non so cosa siano i “collaterali”, quindi non li conto) è piuttosto peculiare: perché allora non si contano anche i soldi spesi per acquistare le librerie, intese come mobilio? Sugli altri numeri (i titoli totali cartacei e digitali e le percentuali dei vari canali) sospendo il giudizio per mancanza di dati più specifici: vedrò in giornata se il comunicato complessivo spiegherà meglio cosa è successo. Così però la sensazione è che le carte in tavola siano state messe apposta per far sembrare la situazione più rosea di quanto sia davvero. D’accordo che bisogna pensare positivo, però…

[vedi anche Luca De Biase, che fa giustamente notare come dopo una grossa crisi i lettori forti si siano stabilizzati e si sta perdendo il lettore occasionale (“consultatori di ricette e guide turistiche”)… il che, aggiungo io, è correlato al fatto che il canale di vendita GDO si sia ridotto fortemente. Non so però se questo sia un vantaggio o no per le librerie indipendenti]

Strane requisitorie

Oggi parlano tutti della requisitoria del PM Maria Navarro nel processo per il naufragio della Costa Concordia, soprattutto per l’appellativo “incauto idiota” appioppato al comandante Schettino. Sul mio socialino preferito mi hanno spiegato che le definizioni precedenti (“abile idiota” e “incauto ottimista”) sono formule giuridiche standard; resto comunque perplesso dalla crasi fatta dal pubblico ministero.

Ma Roberto Lucchetti mi ha fatto notare come nella requisitoria ci sia una frase ancora più sconcertante, almeno per chi ha un minimo di formazione matematica: «menzogne paradossali, il rapporto tra Schettino e la verità non appartiene a geometrie euclidee». Si apre ora il concorso “da’ un senso a quella frase”. Inizio io con un paio di esegesi:

– Quando Schettino si trova in una data situazione, per lui è possibile affermare più di una verità che va in parallelo ai fatti.

– Schettino era convinto che la somma degli angoli di un triangolo fosse molto minore di 180 gradi, e quindi ha sbagliato manovra.

Ultimo aggiornamento: 2015-01-26 16:34