Archivi categoria: pipponi

Un’altra vittoria per gli OTT

Non è facile riuscire a capire cosa ci sia scritto in questo articolo di Repubblica, a parte che AGCOM ha diffidato Tre e Wind (ora un’unica entità) dal fornire app di ascolto musica e chat che funzionano anche quando i gigabyte dell’offerta dati sono terminati. I riferimenti normativi sembrano scritti da qualcuno che ha preso un documento in inglese e l’ha passato a una vecchia versione di Google Translate: ad ogni modo, se volete sapere qual è il documento della “agenzia UE che si chiama Berec”, potete trovarlo partendo da qua: i punti sono quelli dal 40 in poi.
Ora, se ci pensate un attimo la portata di quella diffida è molto maggiore di quanto possa sembrare a prima vista: non ci vorrà molto a fare notare che anche prima che si raggiunga la soglia dei giga avere un’app locale zero-rated invoglierà gli utenti a usare quella e non andare a prendere le offerte degli OTT (Over The Top, le aziende che fanno servizi basati su un’infrastruttura di rete). Questo è quello che gli OTT hanno sempre voluto: per loro le aziende di telecomunicazione dovrebbero solo far passare i dati (altrui) e non rompere le palle. Concetto magari condivisibile, ma che in tal caso dovrebbe essere portato all’estremo ritornando al monopolio e riportandolo sotto lo Stato. (E comunque mentre posso capire la logica “si favorisce un servizio rispetto a un altro equivalente” per lo streaming musicale, vi voglio vedere convincere tutti i vostri amici a passare alla chat di Wind perché così voi non consumate banda dati)

Comunque la storia della net neutrality non è affatto nuova: leggete qui e qui cosa è successo con Wikipedia Zero (il progetto per cui la Wikimedia Foundation stringeva accordi con le società telefoniche nei paesi a scarso reddito per non far pagare l’uso di Wikipedia da telefonino). Anche se nessuno ci guadagnava soldi, il progetto è stato comunque attaccato perché creava un orticello chiuso…

Ultimo aggiornamento: 2017-03-23 06:56

Lo Stato e i francobolli

Una sentenza citata sulla Stampa sancisce che «Tutti i documenti che nel corso del tempo [dal 1840, per la precisione – nd.mau.] siano stati indirizzati a un ente pubblico sono bene demaniale storico e appartengono allo Stato, perciò il loro posto è negli archivi pubblici; se sono stati “scartati” per le ordinarie procedure di spoglio, vanno distrutti. Ergo, se sono nelle mani di un privato non può che essere per via di un atto illecito.». Ora, il principio forse potrebbe avere un certo qual senso, anche se ho forti dubbi al riguardo. Sembrerebbe quasi che il fatto stesso di indirizzare una missiva allo Stato la renda così speciale da non poter più tornare allo stato ordinario, tanto che deve essere gelosamente conservata o distrutta: non sia mai che possa essere toccata da mani comuni, o peggio ancora letta da qualcuno che non sia stato benedetto dalle Autorità Competenti.

Il punto però che nella sentenza in questione non si parla dei documenti ma dei francobolli posti sulle buste spedite alle regie (e dopo un secolo abbondante repubblicane) istituzioni. Ecco: questo non riesco proprio a capirlo. La mia parte informatica e telecomunicazionistica vede una differenza nettissima tra il messaggio (il payload, se vogliamo usare la parola inglese tecnica) e la busta che lo contiener (le header). La busta è un accidente: in linea di principio io sarei potuto andare di persona a consegnare la mia richiesta che sarebbe stata regolarmente protocollata, e il risultato finale sarebbe stato identico pur senza una busta che contenesse la richiesta. Né d’altra parte la busta viene protocollata come il testo. La logica della sentenza è insomma che lo Stato avrebbe dovuto vendere le buste con i francobolli, perché oramai erano Cosa Sua; e il corollario è che il gravissimo illecito di portarsi a casa i francobolli è imprescrittibile, considerato che quei francobolli non credo siano contemporanei.

A questo punto non voglio sapere come negli uffici pubblici sono gestiti i bagni per gli utenti.

Voucher

I voucher fanno schifo, dice la CGIL. I voucher servono solo a dare una spallata al governo, dice il governo. Risultato? Si fa un bel decretino per abolirli, senza stare a guardare se il problema stava nell’esistenza dei voucher in sé oppure in come vengono usati. Ma il decreto deve essere comunque convertito in legge, e ci vogliono 60 giorni: quindi si finirà a ridosso della data del referendum, e tanto per dire le schede dovranno essere preparate lo stesso. Inoltre resta ancora l’ultimo quesito, quello sugli appalti che a quanto pare non interessa a nessuno ma farà comunque spendere soldi. Bello, vero?

Ultimo aggiornamento: 2017-03-17 11:04

Un dubbio (quasi) esistenziale

Leggendo le violenze di sabato al corteo contro Salvini, che poi sono fotocopia di tanti altri casi – l’unica differenza stavolta è che c’era un legaiolo… – mi chiedo se quelli che vanno a picchiare, che tanto mi sa siano più o meno sempre gli stessi, lo facciano perché si divertono a farlo e sono abbastanza sgamati da togliersi quando i celerini rispondono, oppure sono dei poveri minus habens eterodiretti (in questo caso bastano due o tre persone, massimo cinque, per aizzarne duecento: non ci vuole molto quando c’è la massa)

Come avete notato, non penso affatto che sia stato Salvini ad assoldarli: non gli serve, è abbastanza furbo da sapere che c’è qualcun altro che fa il lavoro per lui.

La gogna dello strimi

Ieri alla Camera c’è stata un’audizione informale dei vertici TIM da parte delle commissioni Lavoro, Attività Produttive e Telecomunicazioni. L’audizione è stata «sulle prospettive industriali, sulla tutela dei lavoratori del gruppo e delle aziende dell’indotto.» Come si poteva facilmente immaginare, l’audizione non è servita assolutamente a nulla: potete leggere una nota dei deputati PD della commissione Lavoro per sincerarvene. (Se avete note di altri gruppi parlamentari, segnalatemele nei commenti e le aggiungerò al post).

Ma prima dell’audizione Roberta Lombardi ha scritto questo post su Facebook. Se non state seguendo la vertenza TIM, non potete sapere che la Cittadina Portavoce sta cavalcando la protesta, tanto che si è presentata anche alla manifestazione del primo febbraio. Però evidentemente quel post non poteva essere sul contenuto dell’audizione (nei commenti ha poi aggiunto “Domani pubblichiamo video e post di resoconto dell’audizione”, ma al momento non c’è ancora nulla). E in effetti almeno a me pare che – oltre che a lamentarsi perché l’AD Cattaneo non è voluto andare e «al suo posto manda il presidente che non ha poteri esecutivi e il direttore delle risorse umane.» – il punto fondamentale sia che «La più grande società di telecomunicazioni in Italia ha fatto altro: ha negato la diretta streaming della seduta» e così «negare che i cittadini possano sentire domande dirette e chiare poste dal Movimento Cinque Stelle.».

Ora, si dà il caso che i resoconti stenografici delle audizioni siano pubblici, e potranno essere letti tra qualche giorno sul sito della Camera; e sono ragionevolmente certo che dopo quattro anni di Parlamento la Cittadina Lombardi sia venuta a conoscenza della cosa. Se non lo saranno, sarò il primo a mettermi al suo fianco per denunciare l’ignobile silenzio. Tenuto conto che la vertenza va avanti da mesi e mesi, non sono certo i pochi giorni di ritardo a cambiare le cose. Dunque, a che sarebbe servita la diretta streaming? A sperare che Recchi e Micheli venissero impietosamente inquadrati con un filo di bava alla bocca come Arnaldo Forlani vent’anni fa? Figuriamoci se sarebbe loro capitato. Per vedere la Portavoce mettere all’angolo il duo con un fuoco di fila di domande incalzanti? Onestamente, non credo che sia successo qualcosa del genere. Molto più prosaicamente, sono convinto che le dirette streaming siano solo un’arma di distrazione di massa, che sposta l’attenzione dai temi alle facce ed espressioni della gente; e in questa situazione mi pare proprio che siano molto più importanti i temi delle facce. Per altri evidementemente non è così.

Ultimo aggiornamento: 2017-03-09 09:54

bah

Probabilmente scioperare l’otto marzo è meglio che andare tutte insieme a cena con spogliarello maschile incorporato. Ma la cosa continua a lasciarmi molto scettico.

(Ah, se le donne vogliono andare tutte insieme a cena con spogliarello maschile incorporato in uno qualunque degli altri 364 giorni dell’anno non ci sono problemi per me)

Ultimo aggiornamento: 2017-03-08 10:35

Parole o_stili. O no?

I più attenti tra i miei ventun lettori si saranno accorti che non ho mai scritto nulla su Parole O_stili e sul loro Manifesto della comunicazione non ostile. Non è stato un caso: c’era qualcosa che non mi tornava in tutto il battage, ed essendo notoriamente uno che pensa male temevo il tutto fosse un cavallo di Troia per far passare più facilmente qualche leggina bavaglio. Inutile dire che non sono il solo a pensarla così: basta per esempio leggere Antonio Pavolini, che alla due giorni di Trieste ci è stato e ha visto tutta la parte di eventizzazione nemmeno riuscita tanto bene (quanti di voi hanno sentito dell’iniziativa fuori dalla rete?), oppure Fabio Chiusi che invece ha scelto di non andarci. Ho trovato però molto interessante questa analisi di Benedetto Ponti, che fa le pulci ad alcuni punti del famigerato decalogo e che vi invito a leggere prima di proseguire qua, visto che dice le cose meglio di come probabilmente farò io. Ah: anche Ponti, oltre che notare come il Manifesto sia «una via di mezzo tra il decalogo e il manuale di stile» e quindi né carne né pesce, ritiene che

rischi anche di apparire come il tentativo di riproporre la (più tradizionale) struttura gerarchica nella produzione, circolazione e fruizione delle informazioni (e delle idee), e segnala la profonda insofferenza (da parte di alcuni) nei confronti di un’ecosistema refrattario (o semplicemente inadatto) a riprodurre queste gerarchie (precostituite).

Proviamo a leggere tutto il Manifesto in un ordine più o meno casuale e a fare finta che non sia legato alla comunicazione in rete, ma alla comunicazione tout court: in fin dei conti non penserete mica che Internet sia una riserva indiana, vero? Alcuni punti sono tra il condivisibile e l’ovvietà. Per esempio il 10, Anche il silenzio comunica con sottotitolo “Quando la scelta migliore è tacere, taccio”, dovrebbe essere chiaro a tutti, ma ribadirlo non fa male; proprio come il 6, Le parole hanno conseguenze: “So che ogni parola può avere conseguenze, piccole o grandi”, anche se qui per la precisione ricorderei che le parole scritte in rete restano per sempre. Il punto 8, Le idee si possono discutere, le persone si devono rispettare è bellissimo e giustissimo, e lo dice persino il papa: ma siamo proprio sicuri che non sia rispettato solo nella comunicazione “dal basso”? Le rare volte che mi capita di sentire interviste a politici, nella maggior parte dei casi – per fortuna non sempre, ci sono parecchie eccezioni – sento più che altro insulti alle persone.

Passiamo ai punti che parlano più direttamente di stile. Nulla da dire sul 7, Condividere è una responsabilità: “Condivido testi e immagini solo dopo averli letti, valutati, compresi”. Magari fosse così: mi troverei metà contenuti tra le mie connessioni online, e giusto perché ho selezionato bene le mie frequentazioni. Lo stesso il 3, Le parole danno forma al pensiero, col sottotitolo “Mi prendo tutto il tempo necessario a esprimere quello che penso”. Diciamo che mi accontenterei di trovarmi davanti un pensiero ben definito e non vagante a caso: se fosse breve sarebbe meglio, ma anche Pascal scrisse “Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve”. Quello che mi pare inutile è il punto 5, Le parole sono un ponte: “scelgo le parole per comprendere, farmi capire, avvicinare gli altri”. In realtà la cosa è diversa per due motivi. Il primo è che non sempre posso scegliere le parole, per la banale constatazione che non ne conosco a sufficienza per poter scegliere; il secondo è che quando ho le capacità per sceglierle scelgo le parole per esporre la mia tesi, e non è affatto detto che io sia interessato a comprendere gli altri: non sono un insegnante né un demagogo. Una volta che io so che il mio testo sarà letto e compreso solo da un certo tipo di persone, dov’è il problema? Io scrivo per me e per loro. Altra cosa è se devo rispondere a qualcuno, nel qual caso è buona educazione, in rete come nel mondo là fuori, cercare le parole giuste per quella persona. Qui entriamo nella parte più preoccupante, almeno per me, del Manifesto: quella più prescrittiva. Prendiamo il punto 8. Gli insulti non sono argomenti: “Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi”. Che vuol dire? Che devo rispondere al mio compagno di strada insultante “No, guarda, non devi commentare così, ché poi Gesù piange”? Quello che mi sarei aspettato di trovare è qualcosa tipo “Non sostenere la tua tesi aggredendo gli avversari, perché otterrai il risultato contrario”; se vuoi contribuire a ridurre l’aggressività totale, basta non riutilizzare gli argomenti aggressivi dei nostri fan.

Infine abbiamo i tre punti per me pericolosi, e non solo per me visto che sono quelli esplicitati da Ponti nel suo post. Sul 4, Prima di parlare bisogna ascoltare, io sono un po’ meno tranchant: avrei solo scritto “Prima di rispondere bisogna ascoltare”. La differenza è enorme: ognuno può dire quello che vuole, ma se si vuole davvero avere uno scambio e non una gara di urla occorre appunto ascoltare per poter replicare sul contenuto e non per mostrare di essere il migliore. Il punto 2, Si è ciò che si comunica: “Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano” deve essere letto insieme all’1, Virtuale è reale: “Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona”. In entrambi i casi i sottotitoli snaturano completamente il significato dei punti a cui si riferiscono. Certo, virtuale è reale: ma l’anonimato (anche reale) è un diritto. Per combattere i leoni di tastiera sarebbe molto meglio insegnare ad ignorarli. Lo stesso per la rappresentazione: perché mai io non posso decidere di avere un’identità in rete diversa da quella reale? E se ne voglio avere più d’una, a parte la faticaccia per riuscire a mantenerle tutte? Ma soprattutto, cosa c’entra il modo in cui io appaio con la comunicazione “ostile”, senza underscore? Forse se scrivo buonino allora sarò buonino anche altrove?

Salvini e i vocabolari

«Siamo alla follia – aggiunge Salvini – si perseguono gli italiani e i vocaboli usati. Io sono andato a controllare sulla Treccani il termine, onde evitare fraintendimenti… Basta leggere un dizionario della lingua italiana». Così dice il leader della Lega Nord, almeno secondo Il Secolo d’Italia.

In effetti se uno va sul dizionario Treccani trova scritto «immigrato clandestino, che entra in un paese illegalmente (anche sostantivato: le stime dei clandestini in Italia). Se però andiamo a vedere la legge sul’immigrazione (quella che nacque come Martelli, fu modificata con la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, e alla quale fu poi tolto il reato di immigrazione clandestina) scopre che l’articolo 11, comma 6, non parla di clandestini ma di “stranieri che intendano presentare domanda di asilo”. D’altra parte, il lemma che Salvini afferma di aver controllato comincia con le parole «Che è fatto di nascosto, e si dice per lo più di cose fatte senza l’approvazione o contro il divieto delle autorità» (sì, è sempre la stessa accezione. C’è anche una seconda accezione, «2. In botanica, detto di fiore che resta chiuso e nel quale avviene l’autoimpollinazione; sinon. di cleistogamo.», ma direi che non è il nostro caso), e il De Mauro aggiunge che clandestinità è «. condizione di chi si trova in una situazione di illegalità ed è costretto a vivere nascosto, celando la propria identità». Ora immagino che siate tutti d’accordo che non è banale avere una domanda di asilo e al contempo vivere nascosti e celare la propria identità, e che se è il prefetto che ti manda da qualche parte – com’era nel caso in questione – è difficile dire che si stia andando contro il divieto delle autorità. La domanda che resta sospesa è: ma Salvini parte dal principio che i suoi elettori il vocabolario non lo leggano?

Ultimo aggiornamento: 2017-04-18 10:01