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la “precisione” della matematica

Tra i commenti a un post precedente, hronir ha scritto:
Una delle cose che piu’ mi impressiona(va) dei matematici (all’universita’) era proprio questa loro mania di precisione. Ricordo una sessione di open-day per gli studenti delle superiori, in cui un trio di matematiche, cercando di invogliare gli studenti ad iscriversi alla loro facolta’, ne elogiavano entusiaste quel suo tratto essenziale di insegnarti la “precisione” nelle cose. […] Tutt’ora ho un’idea della matematica moooolto lontana da una cosa “da precisini” che poteva intuirsi dalla matematica del liceo. E del resto, se penso a interi settori come la geometria (algebrica, topologica, metrica, proiettiva, differenziale…), la teoria dei gruppi, la teoria della misura… la matematica del liceo non c’entra niente, e’ mera computazione!
Ora, è indubbiamente vero che la “matematica”, così come si vede a scuola, è completamente diversa non solo dalla matematica “di ricerca” ma anche semplicemente da quella universitaria. Io, che spesso faccio conti per iscritto o a mente, sono effettivamente fuori dai canoni del Vero Matematico. Però la storia della “precisione” è un po’ più complicata, e non può essere liquidata così. Lo spiega molto bene Ian Stewart (immagino), nel libro Darwin’s Watch: Science of Discworld III, che prima o poi recensirò. Ecco la sua citazione, graziosamente tradotta dal vostro affezionato blogghettaro:
Lo sviluppo di nuove idee matematiche tende a seguire un modello ideale. Se i matematici dovessero costruire una casa, partirebbero dai muri a pianterreno, librantisi senza supporto mezzo metro sopra la soletta catramata… o dove sarebbe dovuto esserci la soletta catramata. Non ci sarebbero porte o finestre, solo buchi della forma giusta. Una volta arrivati al primo piano, la qualità dei muri sarebbe migliorata enormemente, le pareti interne sarebbero intonacate, porte e finestre sarebbero tutte al loro posto, e il pavimento sarebbe sufficientemente robusto per poterci camminare su. Il secondo piano sarebbe ampio, ben rifinito, pieno di tappeti, con quadri sui muri, mobili a iosa, tutti bellissimi anche se di stili che fanno tra loro a pugni, sei tipi diversi di tappezzeria in ogni stanza… L’attico, in compenso, sarebbe poco arredato ma elegante – design minimalista, nulla fuori posto, tutto quello che c’è con uno scopo ben preciso. A questo punto, e solo a questo punto, i matematici tornerebbero al pianterreno, scaverebbero le fondamenta, le riempirebbero di cemento, metterebbero la soletta incatramata, ed estenderebbero in giù i muri fino a raggiungere le fondamenta.
Alla fine di tutto questo si avrebbe una casa che si regge in piedi, ma che per buona parte della sua esistenza sarebbe sembrata altamente improbabile. Però i costruttori, tutti eccitati nel far crescere i muri fino al cielo e decorare gli interni, sarebbero stati troppo impegnati per accorgersene, fino a che gli ispettori edili non avrebbero piantato il naso nelle falle strutturali.

La metafora a me pare davvero bella e azzeccata. Chi fa matematica – e non penso solo ai matematici di professione, ma anche semplicemente a chi si diverte a risolvere i problemini matematici… – non sa assolutamente dove andrà a finire, ma non si preoccupa più di tanto della cosa: la cosa principale è trovare il risultato, nella metafora costruire il primo piano. Se poi in effetti si fa matematica sul serio, si iniziano a buttare giù risultati su risultati (il secondo piano), senza preoccuparsi più di tanto di metterli insieme organicamente: quello al limite è un passo successivo, dove si sfronda tutto quello che non serve direttamente (l’attico). Il guaio è che la matematica che ti insegnano a scuola è appunto l’equivalente logico dell’attico. Capisco che alcune di queste cose ti dovrebbero servire nella vita – anche se già sulla risoluzione delle equazioni di secondo grado avrei dei dubbi – e non è che si possa stravolgere i programmi di studio. Ma se devo essere sincero comprendo anche il disagio, per non dire lo spavento, di chi si trova queste costruzioni perfettine e senza sbavature. Ci credo che poi resti questa idea della mania di precisione; purtroppo ci sono cascate anche le tre matematiche citate da hronir. Non tutti sono perfetti.
E le fondamenta, starà pensando qualcuno? Beh, il matematico tipico non si preoccupa più di tanto, visto che sa che prima o poi ci sarà qualcuno che gliele farà :-)

Ultimo aggiornamento: 2007-03-29 11:51

È morto Paul Cohen

(Nota: se sei arrivato qua con un motore di ricerca, ti conviene guardare la versione riveduta…)
Ho trovato casualmente la notizia qui, ma non sono riuscito a trovare nessuna conferma in giro. (beh, no, wikipedia lo indica)
Cohen è noto tra i matematici per avere dimostrato che l’ipotesi del continuo è indipendente dagli assiomi usuali per l’aritmetica… Occhei, ricominciamo da capo.
Poco più di cento anni fa, Georg Cantor ha deciso che l’infinito matematico non era una semplice convenzione, ma che esisteva davvero. Detto in altre parole, si poteva dare una definizione sensata dell’infinito: un insieme che può essere messo in corrispondenza biunivoca con una sua parte propria. I numeri interi sono insomma infiniti perché possiamo dire che i numeri pari sono tanti quanti gli interi, associando a ogni intero n il numero 2n. Poi, con l’argomento diagonale, Cantor si è accorto che i numeri reali sono più degli interi, e quindi che esisteva più di un infinito: per la precisione ce ne sono infiniti.
A questo punto restava un dubbio: l’infinito corrispondente ai numeri reali è quello “subito dopo” quello corrispondente ai numeri interi, oppure ce ne sono altri in mezzo? L’affermazione per cui l’infinito dei numeri reali è immediatamente successivo a quello degli interi prese il nome di ipotesi del continuo, e fu posta da David Hilbert in cima alla sua famosa lista dei 23 problemi matematici per il XX secolo. (A Hilbert le teorie di Cantor erano piaciute tantissimo, ecco il perché di questa posizione di onore). Il problema rimase inattaccato per vari decenni, fino a che nel 1940 Kurt Gödel, non pago di avere dimostrato che la matematica o è incompleta o incoerente, riuscì a provare che l’ipotesi del continuo non era falsa: insomma, se gli altri assiomi matematici standard sono coerenti, aggiungere l’ipotesi del continuo lascia tutto l’insieme coerente. Gödel tra l’altro era convinto che l’ipotesi del continuo fosse vera; peccato appunto che nel 1963 Paul Cohen dimostrò che anche l’opposto dell’ipotesi del continuo non era falsa. (Notate la tripla negazione della frase…) Il risultato pratico è che uno può decidere di fare matematica accettando l’ipotesi del continuo oppure negandola: piena libertà! Che poi – almeno a quanto ne sappia – nessuno si preoccupi più di tanto della cosa tranne qualche logico matematico non significa nulla…

Ultimo aggiornamento: 2007-03-25 20:24

Sintassi, semantica, grammatica

Adesso non venite a lamentarvi che questa non è matematica, ma informatica. Lo so benissimo, anche se dal mio punto di vista le differenze sono relativamente minori (ho dato esami di informatica a matematica, e viceversa). Però sono notoriamente pigro, la parte principale di questo testo l’ho buttata giù al volo perché mi è stata chiesta, e non vedo perché non riciclarmela in altro modo… senza contare che può anche servire per chi non è interessato né alla matematica né all’informatica. E poi, se dobbiamo dirla tutta, sintassi e semantica si usano anche in logica matematica, quindi non è che io sia così fuori tema!
Si sente spesso parlare di sintassi, semantica e grammatica di un linguaggio di programmazione. Se uno si ricorda ancora cosa faceva a scuola, i nomi – almeno grammatica, su… – non sono nuovi; e in effetti il loro significato deriva più o meno direttamente proprio da quello che usano i linguisti. Vediamo qual è il loro significato, partendo proprio da quello che hanno nelle lingue reali.
Partiamo dalla semantica. In linguistica, la semantica è lo studio del significato delle parole e delle frasi in una lingua; detto in parole povere, “che cosa vuol dire quello che c’è scritto?” Nei linguaggi di programmazione, capita esattamente lo stesso: la semantica di un algoritmo è quello che l’algoritmo fa… ammesso naturalmente che non ci siano dei bachi. Similmente, nella logica matematica la semantica è l’interpretazione di una formula. Per fare un esempio, se scrivo ∀x (∃y: y=x+1) la sua semantica è “per tutti gli x possiamo trovare un y che vale x+1”. Se vogliamo rimanere più terra terra, se scrivo 2+2=4 la sua semantica è “due più due è uguale a 4”.
La sintassi indica come bisogna scrivere la frase perché sia corretta; ad esempio scrivere “qual’è” è sintatticamente scorretto, mentre “qual è” è corretto. In un linguaggio di programmazione come il perl, una regola sintattica è ad esempio che le variabili devono iniziare con $, gli array con @ e gli hash con %, o che una componente di un array è $a[x] mentre una di un hash è $a{x}. La parte più importante da tenere a mente è che la sintassi è una convenzione: non c’è nessuna ragione teorica perché gli elementi degli array stanno tra quadre e quelli di un hash tra graffe, esattamente come non c’è nessuna ragione teorica perché in italiano si accentino solo le parole tronche e non anche le sdrucciole come ad esempio in spagnolo. Notate che la sintassi è facilmente riconoscibile anche da uno stupido com’è un calcolatore: se uno scrive un programma, può capitargli che gli compaia il messaggio di errore “syntax error”, ma non certo “semantic error”! Anche nella logica matematica, le formule sintatticamente corrette sono quelle che hanno un senso, anche se magari non sono vere. Ad esempio, tra i numeri interi la formula ∀x∈N (∃y∈N: y=x/2), che dice “per ogni numero intero ce n’è un altro pari alla sua metà”, è sintatticamente corretta ma falsa, visto che ad esempio 1/2 non è un intero. La formula ∀=x/N (y∈N: y∃x∈2) non vuol dire nulla, e quindi non è sintatticamente corretta.
La grammatica, infine, è l’insieme delle regole per comporre le frasi (soggetto – verbo – complementi…) , a partire dalle varie parti che la compongono e che hanno dei ruoli diversi (verbo, nome, preposizione…). Nei linguaggi di programmazione il concetto di grammatica è molto più specializzato, perché esiste un insieme di regole formali che permettono di generare tutti i programmi sintatticamente corretti, applicando man mano delle trasformazioni. Anche nella logica matematica ci sono queste regole formali, però stranamente non viene dato loro un nome specifico, almeno per quanto ne so.
Ricapitolando, la semantica dà il significato, la sintassi il modo corretto di scrivere, e la grammatica dà le regole per scrivere correttamente. Vista così, la cosa non è nemmeno troppo complicata; ma basta relativamente poco e arriva uno come Gödel a mischiare le cose (perché il Numero di Gödel usato nel suo teorema di incompletezza non è poi altro che un modo di trovare una formula il cui signficato semantico riprende la formula stessa, invece che essere al di fuori del sistema). Ma credo di avervi già perso, stavolta…

Ultimo aggiornamento: 2007-03-11 22:24

coniglipolli

Chi ha la mia ormai non più verdissima età forse si ricorderà che la sua antologia scolastica conteneva una poesia – molto sperimentale… – che parlava di “coniglipolli”. Questa poesia era una specie di araba fenice, e non ci si ricordava nemmeno l’autore: non possiamo che ringraziare la rivista Rudi Mathematici, che dopo avere lanciato un accorato appello è riuscita a scoprire che è un’opera di Elio Pagliarani da “La merce esclusa”. Nel sito di RM potete leggere la poesia, che garantisco merita davvero; io mi limito a un suo riassunto e a una considerazione matematica.
conigliopollo.png La poesia espone un problema aritmetico, di quelli che vengono dati a scuola dalla maestra e che probabilmente sono la causa principale della disaffezione, quando non addirittura dell’odio, per la matematica. Ecco il testo.
Un ragazzo vede conigli e polli in un cortile. Conta 18 teste e 56 zampe. Quanti polli e conigli ci sono nel cortile?
Il metodo di soluzione esposto nella poesia prevede di considerare un conigliopollo, animale con due teste e sei zampe. Diciotto teste sono quelle di 9 coniglipolli, che hanno in tutto 54 zampe: quindi ce ne avanzano due. Come facciamo? Nessun problema: introduciamo anche il coniglio spollato, animale ottenuto togliendo un pollo da un coniglio e quindi con 1-1 = zero teste e 4-2 = due zampe. In tutto quindi abbiamo 9 coniglipolli e un coniglio spollato; vale a dire (“ed ora i conigli coi conigli e i polli coi polli”, come scrive Pagliarani) 9+1=10 conigli e 9-1=8 polli. Et voila.
Ora, dal punto di vista prettamente matematico abbiamo semplicemente fatto un cambio di variabili: X=x+y, Y=x-y. Niente di che. Ma a pensarci un attimo su, l’idea è semplicemente stupenda. Esci completamente dalla realtà – quanti coniglipolli hai mai visto in vita tua? – e in questo modo trasformi quello che, diciamocela tutta, è un noioso esercizio in una scena surreale che ha l’enorme vantaggio di farti calcolare la risposta in un attimo, persino a mente se ne hai voglia. La matematica, in fin dei conti, è anche questo: la ricerca di un modo per risolvere i problemi semplificandoli, un po’ come nella barzelletta con la pentola d’acqua da fare bollire dove il matematico se trova la pentola già piena d’acqua la butta via “per ritornare al caso precedente”.
Peccato che questa cosa non s’ha da fare; sempre dalla poesia, “non che violasse le leggi è che dissero basta / la famiglia gli amici gli esempi dei libri di testo”. Eppure mi chiedo cosa penserebbero gli alunni se una maestra proponesse loro il problema mostrando questa soluzione… forse non avremo dei matematici in più, ma magari almeno ci sarebbe un po’ meno gente spaventata dalla matematica.
(Grazie a Layos per il disegno del conigliopollo!)

Ultimo aggiornamento: 2007-03-01 17:20

Numeri multidimensionali

[Questo testo è stato scopiazzat… ehm, ispirato dal post di Mark C.Chu-Carroll su Good Math, Bad Math. Commenti più che benvenuti!]
Il concetto della “retta dei numeri”, quella simpatica astrazione per cui tutti i numeri razionali e irrazionali se ne stanno belli belli l’uno a fianco dell’altro, è abbastanza noto, almeno per chi ha fatto il liceo. Non tutti però sanno che i matematici non si sono accontentati di restarsene confinati in uno spazio monodimensionale, e si sono lanciati in dimensioni sempre maggiori. Stavolta non parlo dei vettori, che sono gruppetti di numeri separati tenuti insieme per un unico scopo, a differenza dei partiti in una coalizione di governo in Italia: in questo caso avremo sempre a che fare con numeri singoli.
Il primo tipo di numeri che incontriamo nel nostro giro sono quelli complessi. Prima di arrivarci, però, facciamo un passo “laterale”, e piano di Argand torniamo per un momento ai numeri immaginari. Il nome è tutto un programma: semplicemente, nel Rinascimento, Tartaglia e Cardano hanno scoperto che se facevano finta che le radici quadrate di numeri negativi, che spuntavano mentre cercavano di risolvere le equazioni di terzo grado, fossero dei “veri” numeri, alla fine esse sparivano e si ottenevano le soluzioni corrette. Al tempo i matematici non erano nemmeno certi esistessero i numeri negativi: ma essendo i due molto pragmatici, hanno detto “immaginiamo che quella robaccia sia un numero”, e da qui è arrivato il nome di numeri immaginari. Che poi, quanto “reale” è un numero reale? Un terzo di torta uno riesce a immaginarselo, ma 1/pi di torta non credo proprio. Ma ormai il nome è quello, così come i numeri ottenuti sommando un reale e un immaginario sono chiamati “complessi” ma non è che siano così tanto complicati. Ci sono voluti più di due secoli prima che qualcuno riuscisse a vedere i numeri complessi non come due pezzi appiccicati insieme a forza, ma un oggetto singolo. Nel 1787 ci aveva tentato il norvegese Caspar Wessel, che però se ne stava appunto in capo al mondo e inoltre di professione faceva l’agrimensore, così nessuno si è accorto di lui; nel 1801 ci riprovò Jean-Robert Argand, che non faceva il matematico neppure lui ma era un libraio svizzero esule a Parigi, cosa che gli ha permesso di pubblicarsi il libro a sue spese e litigare un po’ con il gotha dei matematici, diventando subito noto.
L’idea di Argand, come l’uovo di Colombo, è semplicissima da comprendere dopo che la si è vista; invece che una retta si prende un piano, ci si disegnano due assi cartesiani, e si associa a ogni numero complesso un punto del piano. Siamo finalmente usciti dalla dimensione 1 e arrivati a quella 2, il che è bellissimo: non tanto per tutto lo spazio in più a nostra disposizione, quanto perché possiamo finalmente muoverci a piacere con tutte le operazioni matematiche – salvo dividere per zero, si intende – senza mai uscire dal nostro “giardinetto complesso”. Una situazione davvero favolosa, che però ha un rovescio della medaglia. Mentre sulla retta sapevamo sempre dire se un numero era maggiore o minore di un altro, ora abbiamo dei dubbi. Quale dovrebbe essere il numero maggiore tra 0+1i e 1+0i? E perché? Ma si sa, le comodità hanno spesso un prezzo.
I numeri complessi sono davvero comodi per i matematici e non solo: la teoria della relatività e la meccanica quantistica li usano regolarmente. rotazioni nello spazioMa già con Argand ci si accorse che la moltiplicazione tra due numeri corrispondeva a una rotazione nel piano. Ad esempio, moltiplicare per i significa ruotare di 90° in senso antiorario; dunque i*i è un giro di 180°, che è la stessa cosa che moltiplicare per -1. A questo punto l’irlandese William Rowan Hamilton ha detto “Che bello! Allora se aggiungo anche una j posso anche indicare le rotazioni 3d!” Solo che i conti continuavano a non tornargli… fino a che un giorno del 1843, mentre passeggiava con la moglie e stava passando su un ponte, ebbe l’idea risolutiva: ci voleva anche una terza variabile. Dimostrando scarso senso civico, si mise a incidere sul ponte l’equazione risolutiva: i2 = j2 = k2 = ijk = -1. Nascono così i quaternioni, numeri della forma a + bi + cj + dk. Qualcuno si potrà chiedere perché per indicare le rotazioni nello spazio 3d si usi un numero con quattro componenti, e qualcuno un po’ più avventuroso dirà “ma a che serve k? basta scrivere ij!” Peccato che ampliando così la dimensione dei nostri numeri ci siamo di nuovo persi qualcosa. È vero che ij = k, ma ji= –k. Per i quaternioni non vale cioè la proprietà commutativa della moltiplicazione. Sulle prime ci si può restare male: che senso ha pensare che cinque file da tre sono diverse da tre file da cinque? Ma ricordiamoci che i quaternioni rappresentano le rotazioni nello spazio. E guarda caso, se facciamo prima una rotazione antioraria di 90° e poi una riflessione allo specchio (cioè una rotazione di 180° nella terza dimensione), oppure facciamo prima la riflessione e poi la rotazione, otteniamo un risultato diverso. Insomma, la cosa ha un suo bel senso.
Uno, due, quattro… si potrebbe immaginare che il prossimo passo sia avere un numero con otto dimensioni, e che questo tipo di numero ci farà perdere ancora qualche proprietà matematica, e in effetti è così. Nel 1845 Arthur Cayley presentò al mondo gli ottetti (detti anche ottonioni per avere il nome simile a quello dei quaternioni). Qua, a parte l’unità standard, ci sono altre sette “unità” il cui quadrato è -1; per evitare di usare troppe lettere, in genere queste unità vengono chiamate e1, e2 e così via fino a e7. La nuova proprietà che si è persa è quella associativa; in pratica, (a*b)*c non è più necessariamente uguale ad a*(b*c). Un altro choc di quelli incredibili, ma sono ragionevolmente certo che ci siano delle ricette di cucina in cui tu hai tre ingredienti, e a seconda dell’ordine in cui li mischi ottieni qualcosa di diverso. Ad ogni modo non preoccupatevi: mentre i quaternioni hanno comunque un certo uso in computer graphic, gli ottetti praticamente non vengono usati… anche se hanno una stranissima associazione col piano di Fano, di cui magari parlerò un’altra volta.
Fine della storia. Non si riesce più ad avere altri numeri multidimensionali… con un’eccezione. Esisterebbero infatti anche i sedenioni, che come dovrebbe dire il nome hanno ben sedici “unità”; con questa estensione però si perde la più importante proprietà algebrica dei numeri. In pratica, è possibile trovare due sedenioni entrambi diversi da zero il cui prodotto è zero: un obbrobrio che fa rabbrividire! (E non venitemi a dire che in un orologio analogico se reitero quattro volte un intervallo di tre ore ottengo che le lancette ritornano sullo zero; quella è un’altra storia…)

Ultimo aggiornamento: 2007-02-12 13:48

Pesi e potenze

Un problema matematico molto antico – se ne parla già nel medioevo – suppone di avere una bilancia a due piatti, un oggetto che pesa un numero intero di grammi, e chiede chiede quale sia il minor numero di pesi necessari per determinare il peso dell’oggetto. Niccolò Tartaglia, a metà del sedicesimo secolo, fu il primo a dare una soluzione, usando quello che si può chiamare “metodo del mangione”: in pratica, si va avanti il più a lungo possibile con i pesi esistenti prima di introdurne uno nuovo, e quando non si può fare a meno di aggiungerne un altro si prende il più grande possibile. È chiaro che serve un peso da un grammo, per un oggetto da un grammo. Per pesare due grammi si potrebbe aggiungere un secondo peso da un grammo, ma il “metodo del mangione” ci dice di usarne uno da due grammi, e in effetti così possiamo anche pesare un oggetto da tre grammi. Siamo di nuovo bloccati? niente problema, prendiamo un peso da quattro grammi. Adesso riusciamo a pesare 5=4+1, 6=4+2, 7=4+2+1 grammi, e per proseguire ci occorrerà un peso da 8 grammi. 1, 2, 4, 8… Proprio così. I pesi necessari sono quelli corrispondenti alle potenze di due.
Ma la soluzione di Tartaglia è proprio la migliore? Una sessantina di anni dopo, nel libro Problèmes plaisans et delectables qui se font par les nombres, Claude Bachet riesce a fare di meglio. Il trucco è notare che la bilancia ha due piatti, e che nessuno ci obbliga a mettere il nostro oggetto da una parte e i pesi dall’altra. Ricominciamo allora da capo. Il peso da un grammo ci serve. Se abbiamo un oggetto che pesa due grammi, e lo mettiamo dalla stessa parte del peso da un grammo, possiamo usare un peso di tre grammi sull’altro piatto, e avere la bilancia in equilibrio. Tre e quattro grammi si peseranno quindi normalmente; arrivati a cinque grammi, se mettiamo i nostri due pesi assieme all’oggetto vediamo subito che il prossimo peso che ci occorre sarà di nove grammi. 1, 3, 9, … Anche in questo caso i pesi necessari sono quelli corrispondenti alle potenze di un numero; in questo caso, di 3. Non è difficile dimostrare che con queste serie di potenze può pesare un qualunque oggetto; chi volesse tentarci può ricorrere alla rappresentazione di un numero in base 2 o in base 3.
Post Scriptum: se si vuole davvero risparmiare sui pesi, c’è ancora un trucco che si può sfruttare. È proprio vero che ci occorre un peso da un grammo? Se un oggetto pesa un numero intero di grammi e pesa meno di due grammi, visto che non può essere senza peso, vuol dire che pesa un grammo. In generale, se invece che i pesi da 1, 3, 9, 27… grammi li prendiamo da 2, 6, 18, 54…, riusciremo lo stesso a pesare un qualunque oggetto di un numero intero di grammi!

Ultimo aggiornamento: 2007-01-28 23:39