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problemino matematico (facile)

Alle Cenerentoliadi del gennaio scorso c’era questo problemino matematico. Non è difficile da risolvere, diciamo che i più esperti possono provare a farcela senza fare conti e i solutori più che abili possono provarlo a risolvere tutto a memoria; però il problema è comunque alla portata dei ragazzi delle medie.
Avete i dodici numeri da 110 a 121 e dovete associare a ciascuno di essi un numero da 1 a 12 (tutti diversi, naturalmente), in modo che ciascun numero aggiunto sia un divisore di quello iniziale. Per fare un esempio, se poteste usare i numeri da 1 a 15 e aveste anche il 105, visto che 105=3*5*7 potreste associargli 1, 3, 5, 7 oppure 15=3*5. Nel nostro caso, a 120 si può associare 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10 oppure 12. La soluzione è unica.

Ultimo aggiornamento: 2010-02-03 07:00

Intonazione e temperamento (III)

Riassunto delle puntate precedenti: Pitagora si è accorto che le note musicali potevano essere ricavate da una corda che vibra, man mano dimezzando o moltipllcando per tre mezzi la sua lunghezza. Nel primo caso si otteneva una nota “quasi uguale” (all’ottava sopra), nel secondo una “che stava bene insieme” (una quinta sotto). Peccato che i rapporti delle lunghezze tendevano a diventare dei numeracci troppo complicati per il suo gusto estetico, che dopo tante quinte e ottave non si riusciva a tornare esattamente al punto di partenza, e che la nota che completa l’accordo con quinta e ottava suonava male. Zarlino ha provato a mettere a posto il primo e l’ultimo problema, con la fregatura che adesso suonare in do maggiore e in re maggiore faceva una sottile ma perfettamente udibile differenza. Pietro Aron aveva invece preferito temperare le quinte, abbassando un po’ la loro intonazione per lasciare uguali i vari intervalli tra le note; i rapporti corispondenti diventavano però brutti numeri irrazionali e il giro di quinte e ottave (il “circolo delle quinte”) si chiudeva ancora peggio di prima. Infine Werckmeister aveva scelto un approccio molto più pragmatico, temperando solo alcune quinte a seconda del tipo di musica che si voleva suonare. Gli intervalli tra una nota e la successiva erano generalmente tutti diversi, i rapporti non venivano nemmeno più calcolati, però il circolo delle quinte si chiudeva perfettamente.
Come avrete notato, dopo un promettente inizio nessuno si preoccupò più che i rapporti tra ciascuna nota e la successiva fossero dei numeri “interessanti”; si era indecisi se perlomeno dovessero essere o no tutti uguali tra loro; la chiusura del circolo delle quinte stava diventando davvero importante. Il passo successivo era logico; fregarsene dei valore dei rapporti, e mettere come assioma che il ciclo delle quinte fosse perfetto e che tutti gli intervalli fossero identici. Il corollario è che bisogna dividere l’ottava in dodici parti uguali (per rapporti,non per differenze); ciascun semitono deve pertanto corrispondere a un rapporto pari a 12√2. Questa suddivisione ha preso il nome di temperamento equabile, perché appunto a tutti i semitoni corrisponde lo stesso rapporto. Non che l’idea fosse nuova; già ai tempi dell’antica Grecia Aristosseno di Taranto l’aveva formulata, e ai tempi di Zarlino il matematico e fisico Simone Stevino la propugnava con forza. Solo nel Settecento però si ebbe la possibilità tecnica di calcolare correttamente le suddivisioni; non per nulla in quel periodo nacque anche la chitarra, dove i capotasti ti costringono a suonare con il temperamento equabile.
Alle lezioni di storia della musica ti insegnano che è stato Johann Sebastian Bach a propugnare questa accordatura, scrivendoci su apposta Il clavicembalo ben temperato; oggi però molti studiosi non sono d’accordo, e ritengono che Bach abbia scritto quei preludi e fughe avendo in mente il temperamento Werckmeister I (III). Non sono certo in grado di dare un giudizio netto, ma il batto che l’opera abbia nome ben (“Wohl-“) e non equamente (“Gleich-“) temperato qualcosa lo vorrà ben dire. Ma tanto la cosa non cambia molto; il temperamento equabile ha vinto la guerra, e sono più di duecento anni che si usa solo lui, salvo in casi particolarissimi.
Ecco qua la suddivisione della scala musicale; chiaramente misurarla in cent dà numeri tondi, e in effetti il cent come unità di misura nacque proprio per questa ragione. Non metto i rapporti rispetto alla nota fondamentale, perché tanto sono tutti della forma “radice dodicesima di due elevato a qualcosa”.
 

Temperamento equabile

do re mi fa sol la si do
0 200 400 500 700 900 1100 1200

 
Dovrebbe saltare subito all’occhio che l’intervallo di quinta è praticamente uguale a quello dell’intonazione pitagorica e naturale; la cosa non dovrebbe stupirci piu di tanto, visto che abbiamo spalmato il comma pitagorico di errore del giro delle quinte in dodici parti uguali. L’intervallo di terza è invece un po’ migliore di quello pitagorico, ma peggiore di quello naturale o mesotonico; noi non ce ne accorgiamo semplicemente perché siamo bombardati da questo tipo di suoni. Infine è chiaro che si può suonare un brano in una qualunque tonalità e sembrerà assolutamente uguale, proprio per costruzione.
Ma alla fine di tutto questa cavalcata, il temperamento equabile è davvero il migliore? La risposta, come spesso capita, è “dipende”. È sicuramente il più comodo da usare oggigiorno; per il resto è un compromesso sufficientemente accettabile, anche se non perfetto. Accontentiamoci!

Ultimo aggiornamento: 2015-07-21 14:26

Carnevale della Matematica #21 – GOTO Chartitalia

Questo mese il Carnevale della Matematica è ospitato da Chartitalia, un blog generalmente legato al mondo musicale e delle classifiche. Detto in altro modo, andate a darci un’occhiata anche se la matematica non la sopportate: alla peggio evitate di cliccare sui link (farete solo piangere noi poveri divulgatori, ma fa lo stesso)!

Ultimo aggiornamento: 2010-01-14 10:28

Intonazione e temperamento (II)

(segue da qui)
Il problema principale con l’intonazione naturale è che si è persa la perfetta simmetria dell’intonazione pitagorica. Il tono non è infatti piu “il” tono; il rapporto tra re e do (tono maggiore) è 9/8, mentre quello tra mi e re (tono minore) è 10/9. Questo significa che ci sono intervalli teoricamente uguali che suonano diversi; dunque una scala di do maggiore e una scala di re maggiore suonate all’organo – il pianoforte non c’era ancora! – non sono identiche, il che dà un certo qual fastidio all’orecchio. Per gli archi continuano a non esserci problemi, almeno fino a quando suonano tra di loro, senza tastiere di mezzo. C’è stato a dire il vero qualcuno che aveva proposto e fatto costruire degli strumenti (l’archicembalo e l’archiorgano) dove in ogni ottava venivano affastellati ben trentun tasti in modo da permettere di suonare tutte le note intonate giuste; ma credo che la lobby, pardon la gilda, dei costruttori di strumenti musicali e quella dei musicisti si siano alleate per mandare a stendere i propugnatori di quelle ipertroficità. Come per i toni, l’intonazione naturale prevede due semitoni distinti; quello che vediamo comparire nella scala standard, il cui rapporto vale 16/15 e viene chiamato semitono diatonico, e quello calcolato per differenza tra un tono minore e un semitono diatonico, detto semitono cromatico e che vale 25/24. Per confronto, il semitono pitagorico vale 256/243, cioè circa 20/19. La confusione nei nomi e nei numeri è enorme, e non è finita: nella discussione si intrufolò persino Galilei! Non Galileo, ma il su’ babbo Vincenzo, musicista di una certa importanza ben noto a chi ha studiato a Pisa; Galilei propose un semitono dal rapporto 18/17, probabilmente per rompere le scatole a qualcuno perché non so assolutamente come riuscisse poi ad accordare gli strumenti.
Già che stiamo parlando di numeri, aggiungo che la differenza tra tono maggiore e tono minore, il comma di Didimo o comma sintonico, è pari al rapporto 81/80; un rapporto importante anche se, nella migliore tradizione musicale, ci sono almeno altri due commi: quello pitagorico che vale 531441/524288 (parlavamo di numeri piccoli?) e quello enarmonico che vale 128/125. Se ci accontentiamo di un’approssimazione pratica, un tono vale circa 9 commi e un semitono diatonico vale cinque commi, quindi la differenza tra il sol diesis (un semitono sopra il sol) e il la bemolle (un semitono sotto il la) è un comma. Da qua si capisce come mai per vari secoli il comma è stato usato come unità pratica per le approssimazioni.
A proposito di approssimazioni, Zarlino diceva che la sua proposta era da considerarsi uno studio teorico, perché l’Accordatura Migliore era già stata proposta qualche decennio prima: il temperamento mesotonico, detto anche “del tono medio”. Avete notato che prima parlavo di intonazione e adesso di temperamento? Non è un caso, e ora vedrete il perché. Il temperamento mesotonico è stato teorizzato da Pietro Aron nel 1523, e parte da un presupposto se volete lapalissiano: “Vogliamo che le terze suonino bene assieme, e accordando per quinte non riusciamo a farlo? Evitiamo di accordare per quinte!” All’atto pratico si iniziava ad accordare per quinte, cominciando con do – sol – re – la – mi. A questo punto si prendeva il mi ricavato in questo modo, e lo si abbassava (lo si accordava “calante”, nel gergo musicale) fino a che si poteva suonare contemporaneamente do e mi sentendoli intonati. A questo punto si divideva in quattro parti l’abbassamento complessivo e lo si distribuiva tra le quattro quinte, in modo che fossero tutte calanti uguali. Per accorciare il rapporto si fa la stessa operazione con cui si tempera una matita per accorciarla… da qui il termine “temperamento” (anche se a dire il vero sia una corda che una canna d’organo devono essere allungate per abbassarne il suono!) Una volta messa a posto la prima terza non ci sono più grossi problemi: si continua ad accordare per quinte abbassandole per farle diventare consonanti con la terza relativa. Ecco il risultato finale:
 

Temperamento mesotonico

do re mi fa sol la si do
1 √5/2 5/4 2/5 4√125 4√5 1/2 4√125 5/4 4√5 2
0 193 386 503 697 889 1083 1200

 
Ci sono un po’ di radici, addirittura radici quarte, e la logica pitagorica si è persa del tutto; ma non è poi la fine del mondo. Tra l’altro tutti i toni adesso hanno lo stesso rapporto, √5/2, che è la media geometrica tra il tono maggiore e quello minore, da cui il nome dato al temperamento. E la radice quadrata di 5 la si trova anche nel pentagono e nel rapporto aureo, quindi numerologicamente è accettabile. Il guaio è quando ci si mette a riempire l’ottava con i semitoni mancanti, e si casca di nuovo nel problema della chiusura del circolo delle quinte. Il problema era anche presente nell’intonazione pitagorica e in quella naturale, ma diventa importante solo adesso, visto che si inizia a comporre brani in tonalità diverse e a fare delle modulazioni, cioè cambiare tonalità all’interno di un brano inserendo note che non fanno parte della scala originaria. Quel che è peggio è che il temperamento mesotonico, per aggiustare le note usate di solito abbassando le quinte “normali”, rende ancora più difficile chiudere il circolo. Esiste così un singolo intervallo di quinta – la quinta del lupo, in genere tra sol♯ e mi♭, con un intervallo di ben 737 cent, rispetto ai 702 della quinta giusta e ai 697 della quinta temperata mesotonicamente. Quasi mezzo semitono – tecnicamente il famigerato comma enarmonico di cui parlavo prima – davvero difficile da digerire! Occhei, formalmente tra sol♯ e mi♭ c’è una sesta diminuita e non una quinta; diciamo che che se uno suona un brano in mi♭ si trova questo intervallo al posto di quello che dovrebbe essere l’intervallo di quinta la♭ – mi♭ similmente per chi vuole suonare in mi maggiore e (non) si trova l’intervallo sol♯ – re♯. Per ovviare a questo problema, una volta ammesso il principio del temperamento, occorreva qualcuno che con pazienza certosina studiasse quali martellate dare alle canne dell’organo (non scherzo, si fa anche così per accordarlo), insomma quali quinte toccare e di quanto per ottenere un risultato apprezzabile in qualunque tonalità si volesse suonare. Queste cose le sanno fare solamente i tedeschi e i giapponesi: ma questi ultimi non avevano al tempo contatti con gli europei, quindi toccò ai teutonici. Fu Andreas Werckmeister, organista e compositore di cui non rimane praticamente alcun suo lavoro musicale, a comporre il capolavoro ;-): il cosiddetto buon temperamento. Anzi ne compose ben quattro, un po’ come capita adesso nei supermercati americani dove non si può comprare un litro di latte ma bisogna scegliere tra quello che va meglio per una cosa, quello preferibile per l’altra, e così via. Non vi tedio mostrandovi tutti e quattro i temperamenti ideati da Werckmeister; se proprio siete curiosi date un’occhiata a Wikipedia. Mi limito a presentare il cosiddetto Werckmeister I (III), che è quello più adatto per i brani che tendono a usare tutte e dodici le note dell’ottava. Per la cronaca il temperamento si chiama I (III) perché il buon Werckmeister prima ha presentato i suoi metodi, poi ha pensato bene di premettere intonazione naturale e temperamento mesotonico, spostando di numero tutti gli altri.
 

Temperamento Werckmeister I (III)

do re mi fa sol la si do
1 64/81 √2 256/243 4√2 4/3 8/9 4√8 1024/789 4√2 128/81 4√2 2
0 192 390 498 696 888 1092 1200

 
Non spaventatevi dei numeracci! Werckmeister ha fatto un lavoro completamente diverso per far quadrare il circolo delle ottave, e i valori qui indicati sono stati calcolati a posteriori. Quello che ha fatto è dire “prendiamo alcune quinte giuste e temperiamone giusto qualcuna per far tornare i conti”. Le quinte abbassate di un quarto di comma sono quelle do-sol, sol-re, re-la e si-fa#; visto che il comma, come certo ricordate, era l’errore di chiusura del circolo delle quinte adesso il circolo si chiude eccome. I vari toni hanno naturalmente rapporti diversi, ma il risultato finale è apprezzabile all’orecchio, pur non essendolo all’occhio del matematico, tanto che… ma questa sarà la terza (e ultima) puntata della storia.

Ultimo aggiornamento: 2015-07-21 14:25

Intonazione e temperamento (I)

Magari non lo sapete, ma se una persona vissuta nel Medioevo o nel Rinascimento fosse portata ai nostri giorni e gli venisse fatta ascoltare una melodia contemporanea, si metterebbe le mani sulle orecchie e la definirebbe assolutamente stonata. No, non è colpa della pessima qualità di quello che oggidì ci propinano come musica (quantunque…); se anche facessimo loro ascoltare un brano dei loro tempi suonato al pianoforte, il risultato sarebbe lo stesso. E non è nemmeno colpa del pianoforte! Il problema è un altro, e il colpevole – se proprio ne volete trovare uno – è la matematica. Ma andiamo con ordine.
Tutto inizia con Pitagora, il cui marchio di fabbrica – o almeno quello che i suoi seguaci hanno attribuito a lui – era “Tutto è numero”. Pitagora scoprì che se prendevi due corde dello stesso spessore ma di lunghezza l’una il doppio dell’altra il suono emesso quando le si pizzicava era sì diverso ma non troppo; e se il rapporto tra le lunghezze era di uno a tre c’erano due suoni indubbiamente diversi ma che stavano bene insieme. Che si parli di rapporto e non di differenza, come qualcuno potrebbe pensare, non è strano: il nostro orecchio è tarato sui rapporti dei suoni. D’altra parte, per i greci che facevano matematica in modo geometrico la cosa non dava alcun problema.
Il nostro filosofo (o i suoi discepoli) fu ben felice della cosa, visto che era una conferma della sua legge, e si mise a preparare la scala musicale usando i rapporti di quinta (quello uno a tre) per salire e ottava (uno a due) per scendere, riuscendo così a completare le sette+una nota delle scale modali usate dai greci. Ecco i rapporti che si ottengono, fatto pari a 1 il do basso: anche se anacronistico, aggiungo anche gli intervalli relativi alla nota di base calcolati in milleduecentesimi logaritmici di ottava, i cent come oggi sono chiamati. (occhei, dei cent parlerò più tardi, non preoccupatevi)
 

Intonazione pitagorica

do re mi fa sol la si do
1 9/8 81/64 4/3 3/2 27/16 243/128 2
0 204 408 498 702 906 1110 1200

 
Questa scala (detta intonazione pitagorica) è bellissima da un punto di vista matematico. Il rapporto tra due toni vicini qualsiasi è sempre 9/8, e quello tra due semitoni è sempre 256/243: peccato per alcuni problemucci. Innanzitutto, per quanto riguarda Pitagora, c’è che la frase completa che descrive la sua filosofia è “tutto è numero piccolo. Uno, due, tre, quattro formano la tetraktys e sono gli Unici Veri Numeri da usare. Passi se si devono usare 5 e 6, ma 243/128 è proprio bruttino a vedersi! Ma c’è anche una fregatura ineliminabile, dello stesso tipo dei problemi irrisolubili dalla matematica classica come la trisezione dell’angolo e la duplicazione del cubo. Il giro delle quinte e delle ottave dovrebbe chiudersi: sali di dodici quinte, scendi di sette ottave, e in teoria ottieni tutti e dodici i semitoni in cui si divide l’ottava. Peccato che 27 faccia 128 mentre (3/2)12 è un po’ più di 129.74; è un po’ come la barzelletta delle due squadre che iniziano a bucare una montagna dai lati opposti per fare un tunnel e non si incontrano perché hanno sbagliato la direzione di scavo. Non ci si può fare molto: i rapporti sono quelli, e tra l’altro la divisione in 12 parti dell’ottava è una delle migliori possibili, visto che per migliorarla si deve passare a 41 o 53 parti il che diventa pesantuccio: pensate a un pianoforte con tutti quei tasti!
I greci non erano poi così stupidi come si potrebbe pensare, e avevano studiato almeno in teoria altri modi in cui suddividere l’ottava. Peccato che fosse difficile riuscire ad accordare gli strumenti, mentre con l’intonazione pitagorica non c’erano problemi visto che si poteva fare tutto a orecchio. Così si è dovuto aspettare il Rinascimento perché questi metodi diversi venissero messi in pratica… anche perché con le nuove sensibilità musicali se ne sentiva la necessità. Il problema non era l’aggiungere gli altri semitoni, cosa che è stata fatta nel medioevo continuando a lavorare per quinte e ottave; sì, il “semitono in su” e il “semitono in giù” sono diversi, ma per il tipo di musica che si suonava non si poteva mai fare confusione. Il guaio era che nella polifonia si usavano terze e seste per dare un po’ di spessore in più al suono – lo si fa anche adesso, che credete? – e con l’intonazione pitagorica terze e seste cantate insieme suonavano da cani. Fu così che Gioseffo Zarlino nel suo testo del 1558 Le istitutioni harmoniche presentò un “nuovo” metodo per l’accordatura; nuovo si fa per dire, perché era stato inizialmente teorizzato da Archita nel IV secolo a.C. e ripreso da Didimo nel I secolo a.C. e Claudio Tolomeo nel I secolo d.C.
Il metodo di Zarlino ritornava alle origini, cioè agli armonici. Data una nota di partenza (il do1, ad esempio), il secondo armonico è all’ottava superiore (do2); il terzo sale ancora di una quinta (sol2), il quarto di una quarta (do3) e il quinto… di una terza, arrivando al mi3. Se abbassiamo questa nota di due ottave otteniamo per la terza maggiore un rapporto di 5/4 con la nota fondamentale. A questo punto si può scegliere se definire direttamente la terza minore con il rapporto 6/5, che ha la simpatica proprietà di essere un numero della forma n+1/n esattamente come la terza maggiore, la quarta e la quinta; oppure si può procedere di nuovo per quinte e ottave. Il risultato è comunque lo stesso, ed è mostrato qua.
 

Intonazione naturale

do re mi fa sol la si do
1 9/8 5/4 4/3 3/2 5/3 15/8 2
0 204 386 498 702 884 1088 1200

 
Nell’intonazione naturale i numeri dei rapporti sono molto migliorati; gli unici ancora grandi sono quelli degli intervalli di seconda e di settima, che tanto sono dissonanti di loro quindi possono stare così. Le quinte continuano ad essere a posto, le ottave lo sono per definizione come in tutti i tipi di intonazione e temperamento che presenterò, terze e seste suonano che è un piacere, tanto che l’intonazione naturale è usata ancora oggi per suonare strumenti tipo archi (dove si può fare la nota che si vuole) e fiati (dove ci sono problemi tecnici per intonarli diversamente). Però….
Beh, il “però” ve lo racconto un’altra volta.

Ultimo aggiornamento: 2015-07-21 14:25

Carnevale della Matematica #20 – GOTO Matem@ticamente

Essendoché è il 14 del mese, abbiamo il Carnevale della Matematica: Annarita Ruberto è riuscita a radunare una quantità incredibile di contributori, e quindi di contributi. Se vi scocciate della tombola natalizia avrete comunque da fare…
Ricordo che il 14 gennaio sarà Chartitalia a ospitare il Carnevale, probabilmente con una nuance più “musicale”

Ultimo aggiornamento: 2009-12-14 09:57

Dimostrazioni matematiche al calcolatore

Qualche giorno fa Maxxfi mi ha chiesto cosa ne pensassi delle dimostrazioni matematiche fatte per mezzo del calcolatore. La mia laconica risposta è stata “brutte, ma valide”; provo ad aggiungere qualche considerazione in più.
Innanzitutto, bisogna mettersi d’accordo sui termini: cos’è una dimostrazione matematica al calcolatore? Lascio immediatamente da parte i programmi di intelligenza artificiale che dimostrano semplici teoremi, magari dandone nuove dimostrazioni, oppure se ne escono con nuovi teoremini non pubblicati in precedenza: quelle sono dimostrazioni del computer, e hanno la stessa validità degli esercizi che ci facevano fare nel biennio di matematica (forse un po’ meglio, se il programma è fatto bene e gli sono stati implementati correttamente gli algoritmi.
Esistono poi “dimostrazioni” che non lo sono affatto: prendiamo ad esempio il test di primalità di Miller-Rabin, che permette di verificare molto velocemente se un numero è presumibilmente primo. Un non matematico può pensare che se la probabilità che il numero testato non sia primo sia di 1 su 1010 ci si potrebbe anche accontentare, e in effetti molti programmi di crittografia usano questi probabili primi accettando il rischio che primi non siano e quindi si possa fare un attacco al testo crittografato; ma un matematico non potrà mai dire “quel numero è primo”.
Resta infine il gruppo di dimostrazioni al computer vere e proprie: quella archetipale è per il teorema dei quattro colori, che afferma che bastano quattro colori per colorare una qualunque mappa in modo che nessuna coppia di regioni confinanti (per un tratto, i singoli punti non contano) abbia lo stesso colore; ma ad esempio c’è stata anche quella della congettura di Keplero, che afferma che il miglior impacchettamento di sfere nello spazio tridimensionale è quello che faremmo tutti, facendo tanti strati a esagono uno sopra l’altro. Queste dimostrazioni, che gli anglofoni definiscono “computer assisted”, hanno una struttura comune. Il teorema è stato inizialmente analizzato e azzannato, e si è arrivati a dire che il caso generale si può ricondurre a un numero finito di sottocasi particolari; nel caso del teorema dei quattro colori si parla di 1476 mappe (grossine) distinte, mentre per la congettura di Keplero sono state ritenute necessarie più di 5000 configurazioni di sfere. In questi casi, il calcolatore serve a verificare che nessuna di queste mappe/configurazioni invalidi il teorema: un lavoro che in linea puramente teorica si potrebbe fare a mano, ma richiederebbe non so quante centinaia d’anni, e si rischierebbe di fare degli errori (tenetevi a mente questa frasetta).
L’atteggiamento dei matematici rispetto a queste dimostrazioni al calcolatore è prettamente filosofico. Alcuni non le considerano valide perché affermano che la dimostrazione deve essere comprensibile a un essere umano, e se non ci si può mettere a verificare tutti i casi allora la dimostrazione in verità non esiste. Altri hanno una preclusione più di principio: come ci si può assicurare che l’algoritmo usato sia corretto, e il programma per computer lo implementi correttamente? Altri ancora, credo la maggioranza, non si fanno di questi problemi e prendono il teorema per dimostrato.
La mia visione personale? Come credo abbiate capito, non ho nessun problema ideologico su una dimostrazione assistita dal computer. Per quanto riguarda la correttezza degli algoritmi, si può ovviare alla cosa implementando indipendentemente più programmi su più architetture diverse – in effetti per il teorema dei quattro colori hanno fatto così – e verificando che l’output sia lo stesso. D’altronde, non è che le dimostrazioni umane siano scevre da errori: proprio il teorema dei quattro colori era stato “dimostrato” nel 1879 salvo poi accorgersi nel 1890 che la dimostrazione era errata. Insomma, la correttezza degli algoritmi e la correttezza delle dimostrazioni sono in fin dei conti la stessa cosa. Nel caso poi degli algoritmi probabilistici di cui sopra, c’è persino chi afferma che se la probabilità che l’algoritmo non ci prenda sia inferiore a quella di un errore hardware della macchina allora si ha la certezza, ma è una linea di pensiero che non mi ispira molto, a meno di pensare anche che tutti gli esseri umani possano venire ipnotizzati contemporaneamente ;-)
Detto tutto questo, resta il mio giudizio lapidario iniziale: il teorema è sì dimostrato, ma la dimostrazione è così brutta che un Vero Matematico se ne fa ben poco, come diceva anche Erdős. Non è detto che esista una dimostrazione “bella” di questi teoremi; visto però che questi teoremi non sono fondamentali nel senso di essere alla base di tanta matematica si può anche decidere di non contarla come dimostrazione dal punto di vista estetico. A voi la scelta!

Ultimo aggiornamento: 2009-11-11 07:00