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Fibonacci e l’induzione

Leggendo quanto ho scritto sull’induzione, Gnugnu mi ha scritto, suggerendomi un teorema che si può dimostrare con l’induzione forte: ogni intero può essere scritto in un unico modo come somma di numeri di Fibonacci distinti e non consecutivi. Per chi non se lo ricordasse, i numeri di Fibonacci sono definiti così: F1 = F2 = 1, e poi Fn+1 = Fn + Fn-1. In questo caso, però, i primi due numeri di Fibonacci non sono 1 e 1 ma 1 e 2, in modo che tutti i numeri siano distinti. Se volete provare a dimostrare il teorema, smettete di leggere ora! Se invece della dimostrazione non ve ne può importare nulla, saltate i due paragrafi seguenti che sono sì semplici, ma anche piuttosto noiosi.
Per dimostrare che una cosa si può fare in un solo modo, in genere si inizia a domostrare che la si può fare, e poi si fa vedere che se la si fa in due modi questi sono in realtà lo stesso. Vediamo allora innanzitutto che ogni numero può essere scritto come somma di numeri di Fibonacci distinti e non consecutivi. I casi 1, 2 e 3 sono banali: la “somma” è il singolo numero stesso. Andiamo avanti, e prendiamo un n qualunque. Sia Fk=f il più grande numero di Fibonacci minore o uguale a n. Se f=n siamo a posto; altrimenti sia d=nf. Sicuramente d<f, visto che tranne nel caso di 1 e 2 ciascun numero di Fibonacci è minore del doppio del precedente; cerchiamo ora il più grande numero di Fibonacci minore o uguale a d. Tale numero non può essere Fk-1, perché altrimenti se n ≥ Fk+Fk-1 allora è maggiore o uguale a Fk+1, contro la nostra ipotesi. Ma d è esprimibile come somma di numeri di Fibonacci distinti e non consecutivi per ipotesi induttiva, quindi siamo a posto per quanto riguarda la prima parte.
E per la seconda? Beh, prendiamo il più piccolo numero n esprimibile in due modi diversi come somma di numeri di Fibonacci distinti e non consecutivi. Il più grande Fk nello sviluppo dei due numeri deve essere per forza diverso: altrimenti anche n-Fk sarebbe esprimibile in due modi diversi, e quindi n non sarebbe il più piccolo. A questo punto ci occorre un lemma che mostri come – per quanto grande possa essere un numero come da ipotesi il cui sviluppo abbia come termine maggiore Fk – sarà sempre strettamente minore di Fk+1. Di nuovo, possiamo usare l’induzione. 1, 2, 3 non danno problemi perché il loro sviluppo contiene un solo numero. Per un k generico, un numero m il cui sviluppo abbia come termine maggiore Fk avrà al più come secondo termine Fk-2; quindi per ipotesi induttiva m – Fk < Fk-1 da cui m < Fk + Fk-1 = Fk+1, come volevasi dimostrare.
Dal lemma otteniamo così che non è nemmeno possibile che i due modi diversi per esprimere n abbiano come maggior numero di Fibonacci nel loro sviluppo due numeri diversi, e quindi la nostra tesi è ottenuta.
Detto tutto questo, e dando il bentornato a chi non ha avuto voglia di infilarsi in quei conti che sembravano essere infiniti, aggiungo che se io dovessi presentare una dimostrazione di questo teorema la farei in maniera completamente diversa e, almeno a mio parere, molto più intuitiva. Però prima di farla mi tocca fare qualche altro post…

Ultimo aggiornamento: 2010-03-11 07:00

L’induzione matematica [2/2]

Qualche giorno fa ho
iniziato a parlare dell’induzione matematica.
Dopo aver parlato di induzione solo dal punto di vista teorico, vediamo un esempio esplicito di dimostrazione per induzione, mostrando che la somma dei numeri dispari da 1 a 2n+1 è uguale a (n+1)2. Il passo iniziale è semplicissimo: quando n=0, la somma dei numeri da 1 a 1 fa 1, che è esattamente il quadrato di 1. Più facile vederlo che spiegarlo. Immaginiamo ora che l’ipotesi valga fino a un certo n, e proviamo a vedere cosa succede con n+1. La somma dei numeri dispari da 1 a 2(n+1)+1, cioè da 1 a 2n+3, è pari a 2n+3 più la somma dei numeri dispari da 1 a 2n+1, che per ipotesi induttiva è (n+1)2, cioè n2+2n+1. Facendo la somma otteniamo n2+4n+4, che guarda caso vale proprio (n+2)2. Fine della dimostrazione: con un solo caso generale abbiamo dimostrato l’ipotesi per gli infiniti casi particolari.
Tutto questo è bellissimo, ma siete stati attenti c’è qualcosa che non va.Il guaio non è nella dimostrazione, che non è poi così difficile: si fanno giusto un po’ di giochetti formali coi numeri e si arriva al risultato, e questo capita spesso quando si usa l’induzione, tanto che a volte mi chiedo se nessuno abbia mai fatto un sistema di intelligenza artificiale che sappia risolvere problemi per induzione. Ma come facevamo a sapere che il risultato era proprio quello indicato nel teorema? Chi ce l’ha suggerito? Insomma, l’induzione è un bieco trucco; riusciamo solo a dimostrare qualcosa che conosciamo già. La cosa è spiazzante soprattutto per chi è rimasto alla concezione che purtroppo viene insegnata a scuola, vale a dire che la matematica sia qualcosa di perfettamente lucidato, con i teoremi che sono così perché non potrebbero essere diversi, e che scendono dall’alto come novelli deus ex machina. No, non è affatto così. La matematica avanza per tentativi ed errori, ed è solo in un secondo tempo che ci si affretta a togliere tutte le impalcature e lasciare solo il risultato finale per l’ammirazione del popolo. Per quanto riguarda l’induzione, quello che succede di solito è che il matematico fa un’ipotesi su quale possa essere il risultato, e poi controlla se ha ragione; proprio come un meccanico che ascolta il rumore di un motore e fa una diagnosi. Il vantaggio del matematico, se volete, è che non si sporca le mani… a meno che la penna con cui sta scrivendo non perda inchiostro!
Do solo un accenno a un’estensione del principio di induzione, che potete tranquillamente lasciar che è un parallelo della teoria cantoriana degli infiniti. L’induzione classica si applica all’infinito numerabile, ma si può anche parlare di induzione transfinita; in questo caso su dice che “se una proprietà P vale per zero, e quando vale per tutti gli ordinali minori di ψ, allora P vale anche per ψ, allora vale per tutti gli ordinali.” Come in tutte queste eteree proprietà logiche, l’induzione transfinita è indipendente da quella standard, nel senso che uno può accettarla oppure no e il resto della matematica va avanti tranquillo; se lo si accetta, però, l’induzione standard ci viene data gratis. Un esempio a riguardo è il teorema di Goodstein, che non è decidibile usando gli assiomi di Peano ma è vero se si ammette l’induzione transfinita.
Termino con un paradosso matematico basato sull’induzione, che “dimostra” come tutti i cavalli sono dello stesso colore. Prendiamo un insieme di n cavalli. Nel caso n=1 la tesi è banalmente vera. Per un n qualunque, numeriamo i cavalli e togliamo il numero 1. Rimangono n-1 cavalli, che per ipotesi induttiva sono tutti dello stesso colore. Ma se rimettiamo il numero 1 e ne togliamo un altro, abbiamo di nuovo n-1 cavalli, che sono sempre dello stesso colore di prima. A questo punto, visto che i due insiemi hanno un’intersezione in comune, è chiaro che tutti e n i cavalli sono dello stesso colore. O no?

Ultimo aggiornamento: 2010-03-08 07:00

L’induzione matematica [1/2]

Lo sappiamo tutti: Sherlock Holmes è il principe della deduzione. Almeno, ci è sempre stato venduto in questo modo, anche se poi a guardar bene anche l’investigatore dal naso adunco – o meglio Arthur Conan Doyle – spesso barava e tirava fuori dal cappello alcune informazioni che non erano state date al lettore, oppure giungeva a conclusioni non certe ma altamente probabili. I filosofi affermano che il metodo holmesiano si dovrebbe più correttamente definire abduzione, come lo pseudosillogismo che da una premessa maggiore corretta (“tutti gli uomini sono mortali”) e una minore molto probabile (“Giulio Andreotti dovrebbe essere un uomo”) conclude con una conseguenza molto probabile (“si presume che prima o poi Andreotti morirà”). A proposito di abduzione, attenti ai falsi amici! In inglese “abduction” è il rapimento, soprattutto se da parte di alieni… ma non divaghiamo.
Il vero regno del campo deduttivo è naturalmente la matematica, dove si inizia a mettere i paletti (gli assiomi e i postulati) e da lì si va man mano avanti a dedurre i vari teoremi, come abbiamo tutti imparato quando abbiamo studiato geometria. Se ci pensarte un po’, però, la deduzione è un percorso in un certo qual senso sterile; tutto quello che deduciamo, per quanto possa sembrare incredibile – avete presente il cosiddetto teorema di Napoleone? Se si disegnano le trisettrici di un triangolo qualunque, queste si incontrano a due a due nei vertici di un triangolo equilatero – era già presente in nuce negli assiomi e postulati iniziali. Non abbiamo inventato nulla, ma solo scoperto quello che c’era già fin dall’inizio. Ripensandoci, non è affatto strano che la gran maggioranza dei matematici sia fondamentalmente della scuola platonista; a furia di trarre conseguenze logiche di quello che hai, ti inizia a sorgere il dubbio che gli enti matematici sono tutti lì da qualche parte, un po’ come in Flatterlandia.
Eppure anche in matematica c’è un modo per tirare fuori qualcosa di nuovo: l’induzione (“induzione matematica” se si vuole fare i precisini, ma in genere l’aggettivo si omette perché è chiaro che si sta facendo matematica). Anche nel mondo di tutti i giorni si parla di “procedimento induttivo” , ma in realtà è tutta un’altra cosa; si vedono alcune correlazioni, per esempio che quando spunta il sole settembrino dopo un temporale si trovano molti funghi, e si stabilisce una legge generale, che il sole dopo la pioggia faccia crescere i funghi. Tale legge può però essere vera o falsa, ed è solo un risultato empirico che fa rabbrividire un qualunque matematico se applicato alla propria scienza. Qui si tratta di qualcosa di completamente diverso.
La formalizzazione dell’induzione matematica è stata data da Giuseppe Peano nella sua definizione dei numeri naturali. Gli assiomi di Peano sono cinque, come i postulati della geometria euclidea; l’induzione è l’ultimo e il più complicato da spiegare, proprio come in geometria euclidea. Dopo avere stabilito per legge che 0 è un numero, che esiste una funzione S (“successore”) tale che se n è un numero anche S(n) è un numero (“per quanto grande sia un numero, posso sommarci uno”), che non esiste un numero x tale che S(x) = 0 (“zero è il primo numero”), e che se ci sono due numeri m e n per cui S(m) = S(n) allora m = n (“posso mettere tutti i numeri in fila”), il quinto assioma dice che “Se una proprietà P vale per 0 – cioè P(0) è vera – e sappiamo inoltre che se P vale per n allora vale anche per S(n), allora P vale per tutti i numeri naturali”. Per amor di precisione, il quinto assioma di Peano afferma che non ci sono altri numeri naturali al di fuori di questi, ma è un punto secondario. In un certo senso, questo quinto assioma ricorda il postulato delle parallele: molto più complicato degli altri, uno si chiede se è proprio necessario e non si possa invece farne a meno. La risposta è però molto diversa, come vedremo subito.
La cosa che dovrebbe subito saltare alla vista è che il quinto assioma di Peano, a differenza degli altri, tratta con l’infinito. Gli altri assiomi lavorano tutti con un numero o due; anche dire “se esiste il numero un fantastiliardo, allora esiste anche un fantastiliardo e uno” è una proprietà locale. Col quinto assioma, invece, dobbiamo prendere tutti i numeri contemporaneamente. L’immagine che io ho in mente è quella di un numero infinito di tessere del domino messe ritte in piedi una vicina all’altra. Forse avete visto quei video in cui ci si limita a dare un colpetto alla prima tessera, che cadendo tocca la seconda che a sua volta cade colpendo la terza… finché tutta la costruzione finisce giù per terra. Ecco, l’induzione è esattamente la stessa cosa, solo che le tessere sono infinite. Per la cronaca, esistono due definizioni di induzione: nell’induzione forte, invece che solo per n, la proprietà P deve valere per tutti i numeri inferiori o uguali a n, perché valga anche per n+1. Ma in realtà le due formulazioni sono equivalenti, e si può scegliere l’una o l’altra a seconda della comodità. Inoltre non è affatto detto che l’ipotesi induttiva debba partire necessariamente da 0; la proprietà può essere valida da un certo numero k, e ovviamente il risultato sarà valido per ogni intero maggiore o uguale a k. Così, se vogliamo dimostrare per induzione che la somma degli angoli di un poligono convesso di n lati è pari a n-2 angoli piatti, partiremo dal triangolo e non certo da un ipotetico poligono con zero lati!
[non è tutto qua, vai alla seconda parte]

Ultimo aggiornamento: 2010-03-05 07:00

problemino matematico (facile)

Alle Cenerentoliadi del gennaio scorso c’era questo problemino matematico. Non è difficile da risolvere, diciamo che i più esperti possono provare a farcela senza fare conti e i solutori più che abili possono provarlo a risolvere tutto a memoria; però il problema è comunque alla portata dei ragazzi delle medie.
Avete i dodici numeri da 110 a 121 e dovete associare a ciascuno di essi un numero da 1 a 12 (tutti diversi, naturalmente), in modo che ciascun numero aggiunto sia un divisore di quello iniziale. Per fare un esempio, se poteste usare i numeri da 1 a 15 e aveste anche il 105, visto che 105=3*5*7 potreste associargli 1, 3, 5, 7 oppure 15=3*5. Nel nostro caso, a 120 si può associare 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10 oppure 12. La soluzione è unica.

Ultimo aggiornamento: 2010-02-03 07:00

Intonazione e temperamento (III)

Riassunto delle puntate precedenti: Pitagora si è accorto che le note musicali potevano essere ricavate da una corda che vibra, man mano dimezzando o moltipllcando per tre mezzi la sua lunghezza. Nel primo caso si otteneva una nota “quasi uguale” (all’ottava sopra), nel secondo una “che stava bene insieme” (una quinta sotto). Peccato che i rapporti delle lunghezze tendevano a diventare dei numeracci troppo complicati per il suo gusto estetico, che dopo tante quinte e ottave non si riusciva a tornare esattamente al punto di partenza, e che la nota che completa l’accordo con quinta e ottava suonava male. Zarlino ha provato a mettere a posto il primo e l’ultimo problema, con la fregatura che adesso suonare in do maggiore e in re maggiore faceva una sottile ma perfettamente udibile differenza. Pietro Aron aveva invece preferito temperare le quinte, abbassando un po’ la loro intonazione per lasciare uguali i vari intervalli tra le note; i rapporti corispondenti diventavano però brutti numeri irrazionali e il giro di quinte e ottave (il “circolo delle quinte”) si chiudeva ancora peggio di prima. Infine Werckmeister aveva scelto un approccio molto più pragmatico, temperando solo alcune quinte a seconda del tipo di musica che si voleva suonare. Gli intervalli tra una nota e la successiva erano generalmente tutti diversi, i rapporti non venivano nemmeno più calcolati, però il circolo delle quinte si chiudeva perfettamente.
Come avrete notato, dopo un promettente inizio nessuno si preoccupò più che i rapporti tra ciascuna nota e la successiva fossero dei numeri “interessanti”; si era indecisi se perlomeno dovessero essere o no tutti uguali tra loro; la chiusura del circolo delle quinte stava diventando davvero importante. Il passo successivo era logico; fregarsene dei valore dei rapporti, e mettere come assioma che il ciclo delle quinte fosse perfetto e che tutti gli intervalli fossero identici. Il corollario è che bisogna dividere l’ottava in dodici parti uguali (per rapporti,non per differenze); ciascun semitono deve pertanto corrispondere a un rapporto pari a 12√2. Questa suddivisione ha preso il nome di temperamento equabile, perché appunto a tutti i semitoni corrisponde lo stesso rapporto. Non che l’idea fosse nuova; già ai tempi dell’antica Grecia Aristosseno di Taranto l’aveva formulata, e ai tempi di Zarlino il matematico e fisico Simone Stevino la propugnava con forza. Solo nel Settecento però si ebbe la possibilità tecnica di calcolare correttamente le suddivisioni; non per nulla in quel periodo nacque anche la chitarra, dove i capotasti ti costringono a suonare con il temperamento equabile.
Alle lezioni di storia della musica ti insegnano che è stato Johann Sebastian Bach a propugnare questa accordatura, scrivendoci su apposta Il clavicembalo ben temperato; oggi però molti studiosi non sono d’accordo, e ritengono che Bach abbia scritto quei preludi e fughe avendo in mente il temperamento Werckmeister I (III). Non sono certo in grado di dare un giudizio netto, ma il batto che l’opera abbia nome ben (“Wohl-“) e non equamente (“Gleich-“) temperato qualcosa lo vorrà ben dire. Ma tanto la cosa non cambia molto; il temperamento equabile ha vinto la guerra, e sono più di duecento anni che si usa solo lui, salvo in casi particolarissimi.
Ecco qua la suddivisione della scala musicale; chiaramente misurarla in cent dà numeri tondi, e in effetti il cent come unità di misura nacque proprio per questa ragione. Non metto i rapporti rispetto alla nota fondamentale, perché tanto sono tutti della forma “radice dodicesima di due elevato a qualcosa”.
 

Temperamento equabile

do re mi fa sol la si do
0 200 400 500 700 900 1100 1200

 
Dovrebbe saltare subito all’occhio che l’intervallo di quinta è praticamente uguale a quello dell’intonazione pitagorica e naturale; la cosa non dovrebbe stupirci piu di tanto, visto che abbiamo spalmato il comma pitagorico di errore del giro delle quinte in dodici parti uguali. L’intervallo di terza è invece un po’ migliore di quello pitagorico, ma peggiore di quello naturale o mesotonico; noi non ce ne accorgiamo semplicemente perché siamo bombardati da questo tipo di suoni. Infine è chiaro che si può suonare un brano in una qualunque tonalità e sembrerà assolutamente uguale, proprio per costruzione.
Ma alla fine di tutto questa cavalcata, il temperamento equabile è davvero il migliore? La risposta, come spesso capita, è “dipende”. È sicuramente il più comodo da usare oggigiorno; per il resto è un compromesso sufficientemente accettabile, anche se non perfetto. Accontentiamoci!

Ultimo aggiornamento: 2015-07-21 14:26

Carnevale della Matematica #21 – GOTO Chartitalia

Questo mese il Carnevale della Matematica è ospitato da Chartitalia, un blog generalmente legato al mondo musicale e delle classifiche. Detto in altro modo, andate a darci un’occhiata anche se la matematica non la sopportate: alla peggio evitate di cliccare sui link (farete solo piangere noi poveri divulgatori, ma fa lo stesso)!

Ultimo aggiornamento: 2010-01-14 10:28

Intonazione e temperamento (II)

(segue da qui)
Il problema principale con l’intonazione naturale è che si è persa la perfetta simmetria dell’intonazione pitagorica. Il tono non è infatti piu “il” tono; il rapporto tra re e do (tono maggiore) è 9/8, mentre quello tra mi e re (tono minore) è 10/9. Questo significa che ci sono intervalli teoricamente uguali che suonano diversi; dunque una scala di do maggiore e una scala di re maggiore suonate all’organo – il pianoforte non c’era ancora! – non sono identiche, il che dà un certo qual fastidio all’orecchio. Per gli archi continuano a non esserci problemi, almeno fino a quando suonano tra di loro, senza tastiere di mezzo. C’è stato a dire il vero qualcuno che aveva proposto e fatto costruire degli strumenti (l’archicembalo e l’archiorgano) dove in ogni ottava venivano affastellati ben trentun tasti in modo da permettere di suonare tutte le note intonate giuste; ma credo che la lobby, pardon la gilda, dei costruttori di strumenti musicali e quella dei musicisti si siano alleate per mandare a stendere i propugnatori di quelle ipertroficità. Come per i toni, l’intonazione naturale prevede due semitoni distinti; quello che vediamo comparire nella scala standard, il cui rapporto vale 16/15 e viene chiamato semitono diatonico, e quello calcolato per differenza tra un tono minore e un semitono diatonico, detto semitono cromatico e che vale 25/24. Per confronto, il semitono pitagorico vale 256/243, cioè circa 20/19. La confusione nei nomi e nei numeri è enorme, e non è finita: nella discussione si intrufolò persino Galilei! Non Galileo, ma il su’ babbo Vincenzo, musicista di una certa importanza ben noto a chi ha studiato a Pisa; Galilei propose un semitono dal rapporto 18/17, probabilmente per rompere le scatole a qualcuno perché non so assolutamente come riuscisse poi ad accordare gli strumenti.
Già che stiamo parlando di numeri, aggiungo che la differenza tra tono maggiore e tono minore, il comma di Didimo o comma sintonico, è pari al rapporto 81/80; un rapporto importante anche se, nella migliore tradizione musicale, ci sono almeno altri due commi: quello pitagorico che vale 531441/524288 (parlavamo di numeri piccoli?) e quello enarmonico che vale 128/125. Se ci accontentiamo di un’approssimazione pratica, un tono vale circa 9 commi e un semitono diatonico vale cinque commi, quindi la differenza tra il sol diesis (un semitono sopra il sol) e il la bemolle (un semitono sotto il la) è un comma. Da qua si capisce come mai per vari secoli il comma è stato usato come unità pratica per le approssimazioni.
A proposito di approssimazioni, Zarlino diceva che la sua proposta era da considerarsi uno studio teorico, perché l’Accordatura Migliore era già stata proposta qualche decennio prima: il temperamento mesotonico, detto anche “del tono medio”. Avete notato che prima parlavo di intonazione e adesso di temperamento? Non è un caso, e ora vedrete il perché. Il temperamento mesotonico è stato teorizzato da Pietro Aron nel 1523, e parte da un presupposto se volete lapalissiano: “Vogliamo che le terze suonino bene assieme, e accordando per quinte non riusciamo a farlo? Evitiamo di accordare per quinte!” All’atto pratico si iniziava ad accordare per quinte, cominciando con do – sol – re – la – mi. A questo punto si prendeva il mi ricavato in questo modo, e lo si abbassava (lo si accordava “calante”, nel gergo musicale) fino a che si poteva suonare contemporaneamente do e mi sentendoli intonati. A questo punto si divideva in quattro parti l’abbassamento complessivo e lo si distribuiva tra le quattro quinte, in modo che fossero tutte calanti uguali. Per accorciare il rapporto si fa la stessa operazione con cui si tempera una matita per accorciarla… da qui il termine “temperamento” (anche se a dire il vero sia una corda che una canna d’organo devono essere allungate per abbassarne il suono!) Una volta messa a posto la prima terza non ci sono più grossi problemi: si continua ad accordare per quinte abbassandole per farle diventare consonanti con la terza relativa. Ecco il risultato finale:
 

Temperamento mesotonico

do re mi fa sol la si do
1 √5/2 5/4 2/5 4√125 4√5 1/2 4√125 5/4 4√5 2
0 193 386 503 697 889 1083 1200

 
Ci sono un po’ di radici, addirittura radici quarte, e la logica pitagorica si è persa del tutto; ma non è poi la fine del mondo. Tra l’altro tutti i toni adesso hanno lo stesso rapporto, √5/2, che è la media geometrica tra il tono maggiore e quello minore, da cui il nome dato al temperamento. E la radice quadrata di 5 la si trova anche nel pentagono e nel rapporto aureo, quindi numerologicamente è accettabile. Il guaio è quando ci si mette a riempire l’ottava con i semitoni mancanti, e si casca di nuovo nel problema della chiusura del circolo delle quinte. Il problema era anche presente nell’intonazione pitagorica e in quella naturale, ma diventa importante solo adesso, visto che si inizia a comporre brani in tonalità diverse e a fare delle modulazioni, cioè cambiare tonalità all’interno di un brano inserendo note che non fanno parte della scala originaria. Quel che è peggio è che il temperamento mesotonico, per aggiustare le note usate di solito abbassando le quinte “normali”, rende ancora più difficile chiudere il circolo. Esiste così un singolo intervallo di quinta – la quinta del lupo, in genere tra sol♯ e mi♭, con un intervallo di ben 737 cent, rispetto ai 702 della quinta giusta e ai 697 della quinta temperata mesotonicamente. Quasi mezzo semitono – tecnicamente il famigerato comma enarmonico di cui parlavo prima – davvero difficile da digerire! Occhei, formalmente tra sol♯ e mi♭ c’è una sesta diminuita e non una quinta; diciamo che che se uno suona un brano in mi♭ si trova questo intervallo al posto di quello che dovrebbe essere l’intervallo di quinta la♭ – mi♭ similmente per chi vuole suonare in mi maggiore e (non) si trova l’intervallo sol♯ – re♯. Per ovviare a questo problema, una volta ammesso il principio del temperamento, occorreva qualcuno che con pazienza certosina studiasse quali martellate dare alle canne dell’organo (non scherzo, si fa anche così per accordarlo), insomma quali quinte toccare e di quanto per ottenere un risultato apprezzabile in qualunque tonalità si volesse suonare. Queste cose le sanno fare solamente i tedeschi e i giapponesi: ma questi ultimi non avevano al tempo contatti con gli europei, quindi toccò ai teutonici. Fu Andreas Werckmeister, organista e compositore di cui non rimane praticamente alcun suo lavoro musicale, a comporre il capolavoro ;-): il cosiddetto buon temperamento. Anzi ne compose ben quattro, un po’ come capita adesso nei supermercati americani dove non si può comprare un litro di latte ma bisogna scegliere tra quello che va meglio per una cosa, quello preferibile per l’altra, e così via. Non vi tedio mostrandovi tutti e quattro i temperamenti ideati da Werckmeister; se proprio siete curiosi date un’occhiata a Wikipedia. Mi limito a presentare il cosiddetto Werckmeister I (III), che è quello più adatto per i brani che tendono a usare tutte e dodici le note dell’ottava. Per la cronaca il temperamento si chiama I (III) perché il buon Werckmeister prima ha presentato i suoi metodi, poi ha pensato bene di premettere intonazione naturale e temperamento mesotonico, spostando di numero tutti gli altri.
 

Temperamento Werckmeister I (III)

do re mi fa sol la si do
1 64/81 √2 256/243 4√2 4/3 8/9 4√8 1024/789 4√2 128/81 4√2 2
0 192 390 498 696 888 1092 1200

 
Non spaventatevi dei numeracci! Werckmeister ha fatto un lavoro completamente diverso per far quadrare il circolo delle ottave, e i valori qui indicati sono stati calcolati a posteriori. Quello che ha fatto è dire “prendiamo alcune quinte giuste e temperiamone giusto qualcuna per far tornare i conti”. Le quinte abbassate di un quarto di comma sono quelle do-sol, sol-re, re-la e si-fa#; visto che il comma, come certo ricordate, era l’errore di chiusura del circolo delle quinte adesso il circolo si chiude eccome. I vari toni hanno naturalmente rapporti diversi, ma il risultato finale è apprezzabile all’orecchio, pur non essendolo all’occhio del matematico, tanto che… ma questa sarà la terza (e ultima) puntata della storia.

Ultimo aggiornamento: 2015-07-21 14:25