Questo libro ha avuto un grande clamore mediatico, e non semplicemente perché David Graeber è morto poco dopo la sua pubblicazione. In effetti il testo – scritto da un antropologo e un archeologo – ribalta completamente quanto tutti noi crediamo di sapere sullo sviluppo della civiltà: che cioè le bande di cacciatori-raccoglitori hanno cominciato ad addomesticare piante e animali, siano diventati stanziali e con il surplus di risorse alimentari a disposizione hanno fatto nascere la “civiltà”, intesa nel senso di avere qualcuno – re, sacerdoti e se volete filosofi – che potevano permettersi di non lavorare, perché c’era chi produceva i beni per loro. A quanto pare, invece, i ritrovamenti archeologici degli ultimi cinquant’anni mostrano che tutto questo è falso: molte popolazioni sono andate avanti e indietro tra i due modelli di vita, o addirittura sceglievano l’uno o l’altro a seconda della stagione; inoltre l’attrazione del tipo di vita stanziale non c’è mai stata, e popoli dei due tipi convivevano tranquillamente nella stessa zona. Graeber e Wengrow ritengono che la narrazione attuale nasca dai tempi di Hobbes e Voltaire, spiegando a lungo le loro ragioni.
Ecco: il problema del libro per me è proprio quell'”a lungo”. Non sono le decine di pagine di note che mi spaventano, ma la quantità enorme di testo, dove gli stessi temi sono ripetuti quasi alla nausea (ripeto, questo vale per me. Altri potranno apprezzare questa loro ridondanza). Diciamo che cento pagine in meno avrebbero fatto bene.
(David Graeber e David Wengrow, The Dawn of Everything : A New History of Humanity, Farrar 2021, pag. 704, € 14,99, ISBN 9780241402450)
Voto: 3/5