Non possiamo certo affermare che questo libro (Jeremy Bernstein, Uomini e macchine intelligenti, Adelphi 1990 [1978,1982], pag. 239, € 14, ISBN 9788845907890, trad. Giuseppe Longo, link Amazon) sia all’ultimo grido della moda: il copyright originale italiano è del 1990 – e si sente che la traduzione di Giuseppe Longo è datata, non solo per l’italianizzazione di alcuni termini che ormai si tende a lasciare in inglese ma anche per forme linguistiche peculiari come il teorema del punto fisso che per lui è del “punto unito” (pag. 46) – ma il testo riprende parti di due saggi del 1978 (!), Experiencing Science e 1982, Science Observed. Né possiamo affermare che sia un saggio unitario: Bernstein più che altro tende a raccontare aneddoti ricavati dai suoi incontri e interviste con i grandi nomi dell’intelligenza artificiale nei suoi primi decenni di vita, con una preminenza assoluta per Marvin Minsky. Devo dire che quando a pagina 21 racconta (nel 1978, ricordo!) di Minsky che ogni tanto si fermava per leggere la “posta” che gli arrivava via computer dagli altri ricercatori di IA sparsi per gli USA ho pensato che io quell’anno avevo appena cominciato a usare una calcolatrice programmabile, altro che Internet (pardon, Arpanet)!
Detto questo, però, e fatta la tara sulla mancanza di temi tipo il deep learning e tutto quello che è arrivato nel XXI secolo, il libro merita ancora la lettura, anche perché mette molto bene in chiaro i problemi filosofici prima che logici e tecnici nel definire l’intelligenza artificiale, oltre a fare una (prei)storia dei linguaggi di compilazione e dei sistemi operativi. La parte più debole è paradossalmente quella che in teoria dovrebbe essere ancora di moda: l’ultimo capitolo sul teorema di Gödel è scritto cercando di replicare il concetto di livelli diversi di pensiero che è alla base del teorema, ma secondo me è riuscito male. Si può comunque sopravvivere :-)