Metodo Report o metodo Eni?

Sono anni che ho smesso di guardare Report, e per la precisione da quando sono capitate delle inchieste su cose che conoscevo direttamente e che quindi sapevo che non erano come le commentavano loro. Report – ma credo di averlo già detto – è un classico esempio di giornalismo a tesi: si decide la tesi e si prepara il servizio montandolo in modo che mostri solo le cose a favore di quella tesi. Non è una cosa inutile, perché si possono ottenere informazioni che probabilmente sarebbe stato molto difficile trovare altrimenti: ma non è nemmeno quel vangelo che molti venerano.
A quanto leggo per esempio dall’ottimo Mantellini, ENI ha scelto un modo diverso dall’usuale per controbattere al servizio messo in onda ieri e in cui si parlava dell’azienda: in contemporanea all’inizio della trasmissione ha messo in linea una pagina web dove contestava punto per punto la ricostruzione di Report, fornendo la propria versione dei fatti. Contemporaneamente la “falange social” aziendale ha presidiato twitter, usando il tag #report in modo che chi usava il social media laconico per commentare la trasmissione – quello che chi ne sa di queste cose chiama “second screen” – si è trovato in diretta il controcanto.

Massimo ha perfettamente ragione a raffreddare gli animi degli iperentusiasti che hanno detto che questo è un passaggio epocale per la comunicazione mediatica italiana: ci sono almeno due ordini di grandezza di differenza tra chi guarda supinamente la tv e chi perde anche tempo sui socialcosi. È vero che bisogna anche considerare il rimbalzo della notizia sulla stampa: ma mentre scrivo, solo Repubblica La Stampa hanno un articolo in homepage, a differenza di Corriere, Giornale, Libero, Messaggero, Il Sole-24 Ore tacciono. Ed è ancora più vero che quella di Eni è di nuovo un’informazione a tesi, ovviamente opposta a quella dell’équipe Gabanelli. Piano con gli entusiasmi, insomma.

Ma penso che sia anche molto utile leggere cosa ne pensa Mario Tedeschini Lalli, che è giornalista di lungo corso ma nonostante questo ;-) di rete ne sa eccome. Mario fa presente che il problema non è quello della diretta o non diretta, ma bensì della credibilità dei giornalisti, che a torto o a ragione – lui è buono dentro, e dice che più spesso è a torto – si è persa. La sfida è quindi quella della massima trasparenza: continuare a fare reportage e non solo talk show, ma lasciare anche a disposizione di chi voglia saperne di più tutto il materiale grezzo. Certo, saranno ben pochi coloro che si prenderanno la briga di farlo: ma bastano anche quei pochi per avere la possibilità di trovare eventuali errori, voluti o no, nella narrazione che poi appare in tv.

In definitiva Mantellini e Tedeschini Lalli spiegano con parole migliori quello che io dico sempre: mai fidarsi di quello che leggete, ricordarsi che la verità è sempre elusiva e che non prescinde comunque dalla verificabilità, e soprattutto che non c’è nessun pasto gratuito: per sperare di capire qualcosa ci vuole fatica, anche solo per seguire le fonti.

Ultimo aggiornamento: 2015-12-14 16:00

11 pensieri su “Metodo Report o metodo Eni?

  1. Mauro

    Pur riconoscendo le pecche di Report, ne riconosco anche i meriti e non sono pochi.
    Il problema siamo noi spettatori: ogni volta che guardiamo una trasmissione di informazione (vera o presunta che sia) la prendiamo o come verità assoluta o come bugia totale, invece che fare come sarebbe corretto, cioè usarla come base per informarci ulteriormente su fonti diverse.
    Ma non lo facciamo.

    Va beh, torniamo a bomba.
    Non so tra Report ed ENI chi ha ragione (probabilmente un po’ l’uno e un po’ l’altro, ma questo non è importante riguardo a ciò che voglio dire), però di sicuro ENI, a livello di immagine (per quanto riguarda questo duello, non necessariamente in assoluto), ha preso un vantaggio difficilmente colmabile da Report.

    1. .mau. Autore articolo

      ha preso un vantaggio tra i commentatori in rete, nemmeno tra gli utenti Facebook semplici. È sempre un problema di filter bubble.

  2. un cattolico

    «ci sono almeno due ordini di grandezza di differenza tra chi guarda supinamente la tv e chi perde anche tempo sui socialcosi»

    Immagino aspettassi che qualcuno ti chiedesse perché due: eccomi! :)

    «Contemporaneamente la “falange social” aziendale ha presidiato twitter, usando il tag #report in modo che chi usava il social media laconico per commentare la trasmissione – quello che chi ne sa di queste cose chiama “second screen” – si è trovato in diretta il controcanto»

    Che sensazione provi pensando che questo è il futuro prossimo?

    «ha preso un vantaggio tra i commentatori in rete, nemmeno tra gli utenti Facebook semplici. È sempre un problema di filter bubble.»

    Visto che nel test giornalistico dell’altro giorno ci hai preso, secondo te che percentuale degli spettatori di Report ha usato twitter ieri o oggi per vedere commenti sul tema? Crescerà questa percentuale col crescere delle divisioni Relazioni Esterne che impiegheranno le loro falangi per questa guerra internautica?

    P.S.: Non è detto che chi non abbia perso tempo sui socialcosi mentre Report era in onda non si sia informato su altre fonti in Rete (o cartacee) a trasmissione ormai conclusa, in tal caso qual è (se c’è) il valore aggiunto dei socialcosi?

    1. .mau. Autore articolo

      Premessa: non sono un social media guru. Le mie risposte sono da prendere con le molle.
      (a) gli spettatori di Report sono dell’ordine di 10^6 (cioè del milione: anche se fossero tre milioni siamo lì); quelli che guardano l’hashtag #twitter sono dell’ordine di 10^4 (decine di migliaia). La differenza di ordine di grandezza è la differenza degli esponenti.
      (b) l’unico vero effetto che vedo nel breve-medio termine è che invece che spendere soldi a fare pubblicità sui socialcosi, le grandi aziende inizieranno a spenderle per farsi pubblicità in questo modo.
      (c) qual era il test? La mia memoria episodica è scarsissima. La percentuale di utenti è stata per l’appunto intorno all’1%. Potrà crescere in un paio d’anni fino al massimo al 5%: bisogna dire che questi utenti dovrebbero essere più interessanti dal punto di vista di un’azienda.
      (d) dipende dal socialcoso. Twitter serve per il qui-ed-ora, Facebook può servire solo per minoranze molto ristrette. Paradossalmente può essere più interessante il caro vecchio sito web o blog, ma sui lunghi tempi (se qualcuno tra un paio di mesi fa una ricerca perché si ricordava qualcosa della querelle), perché sono più meditati.

      1. un cattolico

        (a) Grazie per avermi spiegato cos’è un ordine di grandezza, ma ne avevo contezza :D Ti chiedevo perché due perché secondo me sono 3, se ci limitiamo a coloro che cercavano #report ieri sera… ;) Insomma migliaia di persone, non decine di migliaia come sostiene anche Mantellini.

        (b) che sostanzialmente è lo stesso.

        (c) il test di un quotidiano anglofono, non ricordo manco più quale anche se è di pochi giorni fa, che voleva evidenziare che percezione distorta ha ciascun popolo di sé stesso.

        1. .mau. Autore articolo

          beh, no. Il numero di persone non visibili perché non mettono nemmeno un like è piuttosto alto, secondo me e presumo Mantellini
          (il quiz era quello del Guardian da qui, ma non è che ci azzeccassi io, erano gli altri che sbagliavano di più)

          1. un cattolico

            A TV Talk hanno ovviamente parlato del “caso Report – Eni”, e hanno fornito i seguenti dati:
            – Per l’Auditel, Report ha avuto ~1.700.000 spettatori (share poco più del 7%);
            – I tweet con hashtag #Report sono stati 2.100.

            Bisogna davvero ipotizzare che per ogni twittatore attivo ce ne siano più di dieci passivi per arrivare alle tue considerazioni, ma mi chiedo: a che pro leggere 140 caratteri spesso insignificanti – tanto più se il tema è un contenzioso tra giornalisti sinistrorsi e un colosso aziendale – se non si vuole dialogare col VIP di turno e tentare velleitariamente di avere una parte da “protagonista”?

          2. .mau. Autore articolo

            Beh, un fattore 10 tra fruitori passivi e attivi mi pare il minimo sindacale :)

  3. layos

    E’ vero che il giornalismo di tesi è fazioso e non sempre correttissimo nel fornire a chi legge o (ancora meno) segue una versione equilibrata dei fatti e delle circostanze. E’ altrettanto vero però che spesso questo tipo di inchieste partono dal presupposto che ci sia “del marcio in Danimarca” e mettono insieme tutti gli elementi che tendono a dimostrare questo fatto. E’ vero che fare questo mette su una china pericolosissima, perché è lo stesso metodo che usano i procacciatori di bufale su Internet mettendo insieme mele con pere alla rinfusa e considerando bovinamente solo gli elementi che concorrono a sostenere la propria tesi ignorando deliberatamente quelli che la smentiscono. Però se alle spalle c’e’ la buona fede questo metodo evita che, di fronte a fatti che non sia possibile inchiodare a prove certissime ed inequivocabili, finisca in un suq con tutti che dicono la propria disinformando e buttandola in caciara.
    Marco Travaglio è un altro che usa questo sistema, ed è vero che ogni tanto va fuori dal binario, ma molto spesso mette l’oggetto della propria reprimenda con le spalle al muro. A Report hanno, per dire, segnato la fine politica di Di Pietro con la famosa inchiesta sulle case di IDV.
    Non è Vangelo, siamo daccordo, ma di sicuro qualche mucchio di polvere sotto il tappeto lo disvela.
    E che gente squalificata come Bisignani ed altri abbiano a che fare coi dirigenti apicali di una importantissima azienda pubblica itailana, non è una cosa, fosse solo quella, di per se, di poco conto da far sapere all’opinione pubblica.

I commenti sono chiusi.