Sabato scorso La Stampa pubblicava un articolo su un’iniziativa di Zanichelli per indicare “le 50 parole italiane da salvare”. Bella cosa, ma…
Innanzitutto chi ha letto l’articolo sul cartaceo ha potuto vedere la lista delle parole in formato grafico, ma chi lo legge via web non solo non ha a disposizione l’immagine, ma non si trova nemmeno un link al sito della Zanichelli dove c’è la lista (per la cronaca, l’ho trovata qua) Questo è il solito problema dell’italica stampa, che non riesce ancora a pensare né in termini di fruizione web né in quelli di interconnessione; mi sa che non si possa fare molto.
Aggiungo però anche un commento sul merito dell’articolo. Dire che i termini desueti nelle coppie di non-esattamente-sinonimi restano «nella disponibilità di un manipolo ristretto di aristocratici del linguaggio» non è che abbia chissà quale senso. Se quei termini non sono nemmeno nella conoscenza passiva della gggente, insomma se non sanno proprio cosa vuol dire, allora è come se non esistessero già più. Altrimenti sono comunque destinati a morire, proprio perché non c’è massa critica per perpetuare la sfumatura diversa del significato. Ma credo che sia più importante confutare la logica nascosta dietro la frase «il parlare di tutti i giorni è affidato a non più di 2.500 parole che da sole esauriscono l80% di tutti i nostri enunciati». La frase credo sia corretta; ma non mi sembra un problema. Magari qualche esperto di linguistica computazionale mi smentirà, e forse potrei verificare da solo il tutto con qualche opera classica; ma non mi sembra così strano che poche parole costituscano la gran maggioranza dei nostri discorsi. Sì, ci sarà tutto il discorso della coda lunga, ma mi preoccuperei di una lingua per cui conoscendo 2500 parole si possa comprendere solo un terzo di quelle presenti in un articolo di giornale; ci sarebbe troppa diversità per impararla seriamente.
ps: Non c’entra nulla, ma una mia foto è stata citata (con fonte) nel blog della Zanichelli sull’osservatorio della lingua italiana. Ce n’è anche una di Licia.
Ultimo aggiornamento: 2010-02-08 12:27
Osservazioni confermate dal linguista inglese David Crystal: il numero di parole diverse effettivamente usate nelle conversazioni generiche può essere molto basso (anche molto meno di 2500) ma a quanto pare la maggior parte dei parlanti sottovaluta il proprio vocabolario, tanto che il lessico attivo di una persona adulta di madrelingua inglese può essere di circa 40000 parole e quello passivo tre volte tanto. È vero che linglese ha un numero di parole molto più alto di qualsiasi altra lingua europea, immagino comunque che anche chi parla italiano abbia un vocabolario di decine di migliaia di parole.
Invece a proposito di parole che stanno diventando desuete, se non lo conoscete già vi segnalo il Dizionario delle parole perdute.
A me tutto questo articolo sa di non-notizia per molti motivi diversi. Che la (gg)gente utilizzi un sottoinsieme proprio molto piccolo di parole per la comunicazione tra simili non è certo una novità. Qualcuno pensa che nel secolo scorso fosse stato diverso? Io dico che il divario era anche peggiore di oggi. I libri allora li leggevano veramente in pochi, ed il vocabolario minimo era pensato per persone molto istruite (rispetto alla media, naturalmente).
Oggi semmai, o meglio nella modernità, si usano sempre meno parole italiane e si importano sempre più termini stranieri. Inoltre la (gg)gente oggi richiede espressività su temi e categorie che non sono coperte dall’italiano classico: basti pensare all’uso di locuzioni che fanno riferimento a strumenti immateriali su internet…
Adunco non lo usa più nessuno perché le streghe sono sempre meno interessanti rispetto ad altro :-). Il mumero di parole utilizzate dalla (gg)gente per me è rimasto costante e (numericamente) non si è impoverito. Si è allargato il cono di oggetti che vengono citati dal linguaggio minimo, e quindi si perdono queli lemmi che migliorano la precisione espressiva di concetti già esistenti, dando spazio a termini che appartengono ad altri domini precedentemente non coperti. Si sa di tutto, ma sempre meno profondamente.
Anch’io uso solo 2500 parole.
Il problema è che le capiamo solo io e la mia tribù.
@mestesso: Si sa di tutto, ma sempre meno profondamente.
Una giusta reazione all’esagerata iperspecializzazione in auge nel secolo scorso! :)
Anche leggere le parole in vari colori, in vari formati, a formare una pseudo-“tag cloud” era una bella impresa… Ho preferito cercarmi la pagina della Zanichelli e leggerle lì. Che ineffabili zotici, quelli della Stampa: con la scusa dell’eloquio forbito, hanno blaterato un’accozzaglia di cavilli uggiosi!
Non conoscevo il blog di Licia, è davvero interessante.
Sono andato ora a vedere il “dizionario delle parole perdute”. Sono rimasto sconvolto, perché per tre quarti sono per me parole normalissime… certo poco usate, magari relative a abitudini passate, ma che fanno pienamente parte del lessico italiano.
Pensare che oggi ci sia gente che legge “palandrana” o “basto”, “corriera” o “sensale”, e non ha idea di che cosa siano, mi fa un po’ preoccupare.
Certo che parlando con attuali insegnanti di liceo ti dicono che non solo queste sono parole sconosciute, ma che molti non sono nemmeno in grado di capire cosa vogliono dire in quanto non conoscono nemmeno gli altri termini usati dal vocabolario per spiegarle…
@vb: Condivido pienamente. Il sito è interessante, ma molte parole sono più “amate” (almeno da chi le ha proposte) che perdute o in via di perdita. In molti casi semmai si sta perdendo – nel bene o nel male – l’oggetto a cui si fa riferimento, più che la parola in sé (alfabeto morse, carta carbone, microsolco, naja, polaroid e innumerevoli altri): è una questione più di storia dei costumi e della tecnologia che linguistica. “Anemia perniciosa”? “Esame di ammissione”? Non mi sembrano preziosi vocaboli da adottare… Io trovo più interessanti i casi di parole che, pur riferendosi a concetti tuttora vivissimi, si diradano o spariscono per il naturale evolversi della lingua.
Bell’articolo, che però compie lo stesso errore di chi tenta di correggere: trattare le parole come fossero kg di patate. Lei consuma solo 800 grammi di patate, non ci credo, ci pensi meglio e vedrà che ne ingurgita almeno 40000.
Non c’è un problema di numero di parole, ma di qualità delle stesse.
Da un lato abbiamo l’inglese che sta uccidendo le nostra parole (magistrale è il caso di pollution, che italianizzato in polluzione col medesimo significato di inquinamento, sta obliterando la parola italiana polluzione, nel significato di eiaculazione notturna spontanea; e se muore l’originale polluzione, non ci resta che una lunga locuzione per esprimere il concetto), e i neologismi di bassa lega che soppiantano le parole dall’etimologia antica, che ci parlano di noi stessi, che ci spiegano, con la loro stessa esistenza, come l’umanità reagì di fronte a certi stimoli, a certe idee.
Dall’altro lato abbiamo la morte dei verbi: stanno morendo numerosi tempi verbali (appiattendo la nostra memoria storica e il nostro avvenire), i modi dell’irrealtà sono in crisi (riducendo la nostra capacità di riflessione), ma soprattutto è proprio il numero di verbi, ovvero di azioni, di possibilità che la nostra esistenza offre che si sta contraendo: abbiamo sempre più nomi di cose e sempre meno azioni, a emblema di una società che pensa solo alla materia.
Ecco perché stiamo inguaiati: in passato non c’erano più ‘cose’ e le parole non erano di più, ma c’era il passato remoto e il trapassato, il futuro anteriore e c’erano molte più azioni.
Ipad, iphone, microprocessore, mouse, tappetino del mouse non eguagliano ‘accondiscendere’, ‘interpolare, ‘avvicendare.
800 grammi di patate non eguagliano 800 grammi di carciofi.