Non entro nel merito del “Metodo Analogico” per cominciare ad apprendere la matematica propugnato da Camillo Bortolato: sicuramente molti bambini restano intimiditi dalle regole aritmetiche formali e possono trovare vantaggio da metodi più informali per giungere ai concetti base dell’aritmetica. (Io non faccio testo, da bimbo ero formalista molto più di quanto lo sia ora). Però confesso che alla fine del libro non sono riuscito a capire quale sia questo metodo, se non per qualche cenno qua e là sparso in un mare magnum di dottissime citazioni (“[V]ediamo il dato di quantità prima ancora di riconoscere l’identità delle cose che ci si paventano davanti”, pag. 18) e di massime tendenti allo zen (“L’intuizione è lo sguardo dall’alto che vede anche il molteplice come una unità”, pag. 78), il tutto condensato in comode e brevi paginette (con dei bei disegni, ammetto). Ora, raggiungere l’illuminazione sarà appunto illuminante: ma dal libro io mi sarei aspettato come far raggiungere l’illuminazione, che è una cosa del tutto diversa. Insomma, se il risultato finale è “Facciamo tutti fatica, anche se diciamo che è un gioco. Quindi mettiti al lavoro partendo dai piedi della montagna e trovati la strada. Inventa per conto tuo il Metodo Analogico come stanno facendo i tuoi compagni. Come ha fatto ciascuno di noi.” (pag. 151) non serve leggere il libro :-)
(Camillo Bortolato, La via del metodo analogico : Teoria dell’apprendimento intuitivo della matematica, Erickson 2014, pag. 163, € 13,50, ISBN 9788859006558)
Ultimo aggiornamento: 2022-03-26 10:06

Vabbè, la storia dell’Albergo di Hilbert la conosciamo più o meno tutti – o almeno la conosce chi ha un po’ di curiosità per la matematica. Devo dire che però la storia raccontata da Ivar Ekeland e disegnata da John O’Brien, che è appena entrata nella Mathical Hall of Fame, è davvero carina ed è un peccato che sia fuori commercio. (Ma potete andare a prenderlo in prestito su archive.org, in un’ora lo leggete senza problemi). In questo caso il vero protagonista è il gatto, che guarda tutte le magie matematiche dell’albergo di Hilbert e non riesce a capire come possano avvenire, tanto che alla fine… no, non ve lo posso dire.
Leggere questo libro, che parte come una biografia di Paolo Boringhieri ma vira molto rapidamente verso una storia dell’editrice Einaudi tra il 1945 e il 1957, con un’appendice sui primi anni della Boringhieri, lascia una sensazione di déjà vu per chi come me ha un po’ bazzicato il mercato editoriale italiani. Le difficoltà economiche erano già allora le stesse di oggi, esattamente come la difficoltà nel riuscire a rispettare i tempi di traduzione (ecco, forse allora le traduzioni erano più ruspanti di quanto lo siano oggi, almeno nell’editoria di qualità). Ma è anche bellissimo (ri)scoprire un Pavese-factotum che praticamente mandava avanti da solo la casa editrice, vedere la quantità di consulenti di primissimo piano che Einaudi aveva – come nota personale, non avrei mai pensato che Luigi Radicati di Brozolo fosse stato uno di loro – e soprattutto accorgersi dell’organicità al PCI. Forse la mia generazione era meno politicizzata, o forse sono io che vivevo nell’iperuranio: ma leggere della cellula del Partito in Einaudi, o scoprire come l’affare Lysenko vedesse una triangolazione tra Mosca, Torino e Roma per l’eventuale pubblicazione delle sue opere in italiano mi ha lasciato basito. Una storia, anzi tante storie parallele, davvero interessante!
Con queste ventisei storie, una per lettera dell’alfabeto – con qualche licenza poetica… – Giuseppe Mussardo traccia una storia della scienza moderna. Abbiamo una preponderanza di fisici, ma la cosa ci può stare visto che Mussardo è anch’egli fisico. Non pensate a biografie vere e proprie, anche se ci sono cenni sulla vita di tutti i protagonisti: in genere l’autore parte da un punto focale della loro vita e costruisce il suo racconto a partire da lì. Le illustrazioni di Debora Gregorio sono un ottimo complemento al testo, che si legge davvero con piacere.
Il prossimo giovedì sarà pubblicato
La coppia Monti-Wacks ritorna con questo nuovo libro sulla “sicurezza nazionale”, nel quale raccontano come il concetto non sia affatto moderno – anche se ai tempi della Roma imperiale la “sicurezza” spesso era più nei riguardi dell’imperatore che per lo stato… – e soprattutto come sta cambiando. La parte iniziale con l’excursus storico è interessantissima: lo sapevate che i “delatores” erano semplicemente quelli che permettevano di far partire un procedimento penale, “portando (informazioni) riguardo (a qualcuno)”? Ma non certo inferiore è la parte moderna e contemporanea, dove vediamo come non solo il concetto di sicurezza nazionale è piuttosto ambiguo in punta di diritto ma soprattutto capiamo cosa significa in pratica lo spostamento dagli stati sovrani alle Big Tech della gestione della sicurezza nazionale. Si può essere o meno d’accordo con gli autori quando tirano l’acqua al loro mulino e affermano che La sicurezza nazionale deve diventare una parte riconosciuta del sistema legale, liberandosi della sua veste politica; ma è difficile negare che mentre la democrazia nasce come una delega di potere dal cittadino allo stato, attualmente abbiamo un’inquietante trasferimento di potere, che erode il contrasto tra democrazie liberali e regimi autoritari.
D’accordo, questo è un problema mio: ma per me è stato davvero difficile leggere un libro che parla di un mondo post-apocalisse, con l’apocalisse in questione nata da una pandemia influenzale. Forse non è nemmeno la pandemia di per sé che mi ha angosciato, quanto il vedere come tutta la civiltà che do per scontata si sia sbriciolata in pochi giorni, forse anche molto più di quanto ci si possa aspettare: mi pare impossibile che al ventesimo anno dopo la fine del mondo nessuno abbia ancora cominciato a produrre elettricità anche se in piccolo, e nessuno sia andato a saccheggiare le biblioteche per cercare informazioni su come fare alcune cose di base. Eppure i protagonisti dicono che ormai la vita è molto più tranquilla che dieci anni prima… insomma non siamo più alla pura sopravvivenza.
Non c’è dubbio: Spadaccini scrive molto bene. Lo si vede già dall’introduzione. E non mi lamento nemmeno più di tanto dei pezzettini riempitivi alla fine dei capitoletti – che nascono di solito come articoli indipendenti pubblicati in rete; secondo me non era necessario dare una parvenza di continuità perché sarebbe bastato parlare di storie, ma quella è una sua scelta di per sé innocua. Quello che invece non mi è piaciuto è il tentativo di mischiare una parte più descrittiva – le storie sui libri e sulle persone – con una parte più narrativa che dal mio punto di vista è completamente avulsa, come l’estratto del suo romanzo mai portato a compimento. (Parlare del suo rapporto con i libri ha invece senso nel contesto). Insomma il risultato è stato qualcosa che non è né carne né pesce.