A quanto pare, la parola di moda in questi ultimi scorci del 2016, anche se è nata più di vent’anni fa, è “post-verità”. Non so quanto la storia durerà: si sa che le mode passano molto in fretta. Questo è dunque il momento di fermarsi un attimo e cercare di capire cosa sia esattamente la post-verità; o meglio, cosa io ho capito essere. La cosa che non mi è saltata agli occhi – mi ci sono volute alcune settimane per metterla a fuoco – è che come capita spesso il termine viene usato per significare cose diverse. La cosa più peculiare è che in questo caso non sono due i concetti collassati nel parolone con cui riempirsi la bocca, ma tre, almeno in Italia. (Non ho verificato come post-truth venga trattata nel mondo anglofono).
Il primo concetto è quello che è probabilmente alla base del fenomeno, e nasce nel campo dei media. In pratica, mentre un tempo ci si poteva aspettare che giornali, periodici e televisioni – quelli seri, perlomeno – prima controllassero le notizie e poi le pubblicassero, ora le cose funzionano alla rovescia. La fretta di essere i primi, in un mercato nel quale i tempi sono sempre più frenetici, porta alla pubblicazione immediata di qualunque cosa arriva; se poi ci si accorge che la notizia era una bufala allora la si corregge, arrivando insomma alla verità a posteriori. Questo problema è diventato tanto più evidente quanto più i ricavi dei media, sia per il calo delle vendite che per quello parallelo della pubblicità, costringe i vari attori a una feroce lotta per accaparrarsi i pochi lettori rimasti e cercare di mantenersi a galla ancora per un po’. È praticamente impossibile per i lettori difendersi da questa deriva, che oramai è tracimata dai colonnini infami dei quotidiani online e ha inquinato anche la colonna di sinistra che una volta era quella delle notizie.
La seconda post-verità, che è quella assurta ultimamente agli onori delle cronache, è di tipo completamente diverso. Ora infatti non si scrive pensando eventualmente di correggere le cose a posteriori, nemmeno dopo che la falsità della notizia è stata dimostrata al di fuori di ogni dubbio: le notizie false sono invece un vero e proprio manifesto politico (non per nulla in inglese il termine è un aggettivo, e si parla per esempio di post-truth politics). L’idea orwelliana che sta sotto a tutto questo è che una bugia ripetuta a sufficienza diventa una verità, e quindi le bufale sono qualcosa che è successivo alla verità, che non è più importante. Da noi, a parte il click-baiting dei siti (pseudo)giornalistici ufficiali che in effetti a prima vista ha molti punti in comune ma spesso a una seconda occhiata rivela che gli scoop promessi sono poi notizie di scarso o punto interesse, questo tipo di post-verità si manifesta principalmente con una serie di siti (tipo il Fatto QuotidAIno e il GioMale, ma i primi esempi come il Corriere del Corsaro sono stati creati su Altavista) che scientemente pubblicano solamente notizie false. Sulle prime non avevo capito cosa stava succedendo. Ero convinto che questi siti cercassero di lucrare sul successo di Lercio – che scrive sì notizie false, ma con un chiaro intento umoristico e parodistico, riprendendo la definizione latina della satira “castigat ridendo mores” – per acchiapparsi un po’ di click e quindi di introiti pubbliicitari. Mi chiedevo insomma perché questi non fossero in grado di strapparmi neppure un mezzo sorriso. Dopo un po’ ho compreso che i proventi pubblicitari sono solo un sottoprodotto, utile per farsi un po’ di soldi e pagarsi le spese, ma secondario rispetto al loro vero scopo di propaganda destrorsa, quella che mira a fare INDIGNARE la gente (il maiuscolo è doveroso in questo caso, come chiunque può accorgersene vedendo quello che succede con i commenti aggiunti quando i post vengono condivisi). D’altra parte, quando l’altra settimana è stato dimostrato che in realtà tutti questi siti hanno un’origine comune non mi sono per nulla stupito, perché almeno quello mi risultava chiaro. Per questo tipo di post-verità noi utenti possiamo però fare qualcosa per limitare la diffusione. Anche senza vedere il nome del sito che le pubblica, le “notizie” riportate sono così malfatte che non ci vuole molto a capire che sono bufale. Ecco: cominciamo a non condividerle nemmeno per burlarci di chi ci casca o annunciare che sono false, e commentiamo brevemente nelle bacheche di chi le posta spiegando il motivo per cui la cosa non è vera. Se il postatore originale si arrabbia, lasciamo pure perdere, tanto costui è ormai perduto; se si accorge del suo errore abbiamo aggiunto un mattoncino alla verità senza post.
Ma a quanto pare noi in Italia abbiamo un terzo tipo di post-verità, come evidenziato dall’intervista del Garante Antitrust (che ha a che fare con la materia?) in un’intervista al Financial Times (perché non a un quotidiano italiano?). Nell’intervista, Giovanni Pitruzzella lancia l’idea di una regolamentazione a livello europeo, con un non meglio identificato ente pubblico – su questo è stato esplicito, deve essere pubblico – che dovrebbe controllare, mettere un bollino di non-verità ed eventualmente far rimuovere le bufale. Come spero vi siate accorti, siamo arrivati a un livello completamente diverso. Non importa più sapere cosa è verità e cosa no; quello che conta è che ci sia un Fratellone che faccia una scelta per noi e ci liberi dal fardello di usare il nostro raziocinio per discernere le notizie. Le bufale sono insomma una banale scusa per potere censurare, con il consenso del popolo tutto. La verità diventa così una verità di Stato. Non fosse che Beppe Grillo con la post-verità del secondo tipo ci campa, verrebbe voglia di essere al suo fianco quando denuncia il fatto… Invece mi limito a lavorare in parallelo ;)
(ah: Carlo Felice Dalla Pasqua ci ha ricordato che Pitruzzella non è nuovo a queste esternazioni, e in effetti aveva già usato il Corrierone)
Ultimo aggiornamento: 2017-02-07 23:02