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parole matematiche: equazione

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Le equazioni, nell’uso corrente, indicano qualche cosa di astruso, il simbolo stesso dell’incomprensibilità. Se uno “parla per equazioni”, significa infatti che sta cercando di fare in modo che a nessuno sia concesso di comprendere gli alti concetti che sta esprimendo… Forse, ma proprio forse, qualche iniziato potrà avere una pallida idea, ma senza esagerare. Secondo me tutto questo è nato perché la q e la z, due lettere dal suono duro e piuttosto rare in italiano come ben sa chi gioca a Scarabeo™, si coalizzano per far sì che esca fuori questo significato; senza contare naturalmente la paura che la matematica incute sempre al 97% della popolazione.
Eppure la radice latina della parola “equazione” è la stessa di “equo”, non naturalmente nel senso di cavallo (equus) ma di “giusto” (aequus). E in effetti le prime occorrenze in italiano di “equazione”, che risalgono addirittura al XIV secolo, hanno proprio il significato di “uguaglianza, pareggiamento”. Bisogna aspettare il 1712 perché Guido Grandi si prenda la parola e la porti nel mondo della matematica, con il significato appunto di uguaglianza. In effetti, se ci pensate bene, in un’equazione c’è un segno di uguale. Ancora nel diciannovesimo secolo, quando il termine entra anche nell’ambito della chimica, rimane in quel significato; è solo col passare degli anni che l’enfasi si sposta alla risoluzione, e quindi al trovare il valore dell’incognita o delle incognite ivi presenti… fino appunto ad arrivare all’incomprensibilità di cui scrivevo all’inizio!

Ultimo aggiornamento: 2008-02-07 13:09

parole matematiche: cardinale

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
I cardinali, intesi come gli alti prelati della chiesa cattolica, sono così comuni in Italia che penso chiunque abbia sentito nominare il termine. Magari però a molti di loro non è mai venuto in mente di scoprire da dove giunga questa parola, e men che meno immaginano che anche i matematici hanno i loro cardinali!
L’origine della parola è latina: cardus significa “appoggio, cardine”, proprio come quelli su cui una porta gira su se stessa. Poi, per un torinese come me, il cardo è la strada principale di un accampamento romano, assieme al decumano che gli è perpendicolare… ma qua andiamo un po’ fuori dal seminato. Quello che conta è che “cardinale” sta a significare come senso traslato “qualcosa di fondamentale”: i cattolici, oltre ai prìncipi della Chiesa, parlano anche di virtù cardinali – prudenza, fortezza, giustizia e temperanza, da non confondersi con fede, speranza e carità che sono virtù teologali – mentre i cartografi parlano di punti cardinali.
I matematici sono arrivati molto più tardi a sfruttare il nome: bisogna infatti aspettare la seconda metà del XIX secolo, quando sono iniziati tutti i dibattiti sui fondamenti della matematica e si è iniziato ad osservare piu attentamente i numeri naturali. Ci si è così accorti che da una parte i numeri potevano essere visti nel loro ordine appunto naturale (primo, secondo, terzo…), e hanno chiamato quei numeri ordinali; ma potevano anche essere visti ciascuno per conto proprio, guardando la loro grandezza. In questo caso, probabilmente, hanno ritenuto che questo fosse il concetto fondamentale, e così nel 1865 è entrato nel linguaggio matematico il termine “numero cardinale”. Poi è arrivato Georg Cantor, che ha deciso che i cardinali potevano anche essere infiniti, e quindi i cardinali intesi come numeri si sono espansi più dei cardinali intesi come prelati. Addirittura, una volta che i logici si sono fatti prendere la mano, sono nati concetti astrusi come quello dei cardinali inaccessibili, che possono esistere ma non si possono definire come limite di altri cardinali; insomma, qualcosa di evanescente, anche perché dipende da una serie di assiomi che si vuole accettare come veri. Un bel salto, a partire dal significato iniziale: non trovate?

Ultimo aggiornamento: 2007-12-12 12:09

giochiamo a dadi?

(ok, non ho scritto sulla tombola, anche se qualche idea ce l’ho. Però forse il concetto non è così diverso. E già che ci siete, fate un salto da proooof che spiega come funziona il gioco del 15!)
tre dadiOggi mi sento particolarmente buono e desideroso di farvi vincere un po’ di soldini: vi propongo quindi un gioco d’azzardo tutto per voi. Le regole sono semplicissime: voi scegliete un numero da uno a sei e fate la vostra puntata; a questo punto io lancerò tre dadi (che garantisco essere perfettamente equilibrati). Se uno dei dadi uscirà con il numero da voi puntato, vincete la posta giocata (in pratica, se avete puntato un euro ve ne darò indietro due); se i dadi con il vostro numero sono due, vincerete due volte la posta; se avete più culo che anima e tutti e tre i dadi mostrano il vostro numero, vi pagherò ben cinque volte la posta. Tutto qua: non c’è trucco non c’è inganno.
Pensateci un attimo: preso un singolo dado, avete una possibilità su sei che esca con il vostro numero, quindi se puntate sempre un euro vi succederà che in media ogni sei euro giocati ve ne tornano indietro due. I dadi sono tre, e assolutamente indipendenti tra loro: quindi il gioco sarebbe equo se con tre numeri uguali al vostro usciti vinceste tre volte la posta, ma io sono buono e in quel caso vi pago anche di più. Insomma, la cosa si direbbe interessante, no?
Molto interessante, direi… tanto che casinò di tutto il mondo prevedono questo gioco, anche se in genere non danno il mio superbonus. Come si può leggere su Wikipedia (inglese), il gioco si può trovare in Gran Bretagna (col nome di Crown and anchor, “corona e ancora”, perché i dadi usati hanno sulle facce i quattro semi delle carte da gioco e appunto una corona e un’ancora), negli Stati Uniti come Chuck-a-luck, nelle Fiandre come Anker en Zon, “ancora e sole”, in Francia come Ancre, Pique et Soleil, e addirittura in Vietnam come “bau bau micio micio”… no, scusate, Bau cua ca cop che non so assolutamente cosa significhi ma sembra usi delle belle immagini orientali al posto dei nostri semi, soli, e simili. Magari a questo punto vi sarà venuto qualche dubbio! Bene, sono qua per fugarveli.
Analisi del gioco
Per vedere come mai il banco ha un discreto vantaggio in questo gioco, il metodo che probabilmente viene in mente è provare tutte le 216 (cioè 6*6*6) combinazioni possibili lanciando tre dadi, calcolare la vincita in ciascuno di questi casi, e vedere se è maggiore o minore del numero di combinazioni possibili. Tranquilli, non ho nessuna voglia di farlo, sono quelle cose che vi fanno poi dire che odiate la matematica: e avete perfettamente ragione. La matematica non è “fare i conti”. Può essere in parte “sapere come fare i conti” (e poi infilarli dentro un programma al pc o anche solo un foglio excel), ma è soprattutto “vedere come si può arrivare alla soluzione del problema con la minore fatica possibile”… e ogni trucco, finché è “lecito” secondo le regole della matematica, è il benvenuto.
In questo caso, il metodo più semplice è pensare di puntare un euro su ciascuno dei sei numeri che possono uscire, e vedere cosa succede. In teoria dovremmo, almeno in media, ricevere sei euro o più per ogni possibilità. È proprio così? Vediamo.
– se i tre numeri che sono apparsi sono tutti diversi, vi tornano indietro tre degli euro giocati più tre di vincita: totale sei euro.
– se i tre numeri sono tutti uguali, vi torna indietro l’euro giocato su quel numero più cinque di vincita: totale sei euro.
– se ci sono due numeri uguali e un terzo diverso, vi tornano indietro due degli euro giocati, più uno di vincita per il singoletto, più due per la coppia: totale cinque euro.
Toh. Quando va bene siete in pareggio, ma ci sono delle volte in cui perdete; quindi in assoluto il gioco vi è sfavorevole. Fine della dimostrazione.
Purtroppo, per sapere quanto sia sfavorevole, bisogna fare i conti, e quindi devo andare contro quello scritto sopra su cos’è la matematica. Facciamo che vi fidate, e prendete per buono il risultato finale: una volta puntato su un numero prefissato, ci sono 75 casi in cui questo esca come singoletto, 15 in cui esce come coppia e uno in cui c’è la tripletta (negli altri casi non esce), il che con le regole che ho dato sopra significa un vantaggio per il banco praticamente del 7%, ben più ad esempio della roulette. State insomma ben lontani da chi vi propone questo gioco, lo dico per il vostro bene.
La spiegazione
Questo sembrerebbe proprio essere un paradosso: in fin dei conti il ragionamento iniziale secondo cui se il dato lanciato fosse stato uno solo si sarebbe in media rimasti con un terzo della posta non fa una grinza, e siamo tutti d’accordo che i tre dadi lanciati sono indipendenti tra loro… o no? abbiamo trovato una scoperta di importanza pari alla meccanica quantistica? Tranquilli, non è così. Nemmeno stavolta ci daranno il Nobel. Però, se guardate attentamente la dimostrazione “veloce” che ho scritto qui sopra per far vedere che il gioco non è equo, dovreste essere in grado di intuire dove sono “il trucco e l’inganno”. Se invece non avete proprio voglia di scervellarvi, continuate a leggere qui di seguito!
Il punto chiave che permette di capire cosa succede è fare attenzione a come vengono calcolate le vincite. I soldi che ti ritornano indietro sono in parte quelli della vincita vera e propria, ma in parte quelli che sono stati puntati. Quindi è vero che i risultati dei lanci dei dadi, intesi come numeri che escono, sono indipendenti tra di loro; ma il nostro risultato, inteso come i soldi che ci ritornano indietro, non lo è. Se abbiamo puntato un euro su un numero, con il primo dado che esce con quel numero ci tornano indietro due euro, ma con il secondo se ne aggiunge uno solo in più, e non due come nel caso di vera indipendenza.
È più chiaro adesso il tutto? Se no, potete sempre scrivermi :-)

Ultimo aggiornamento: 2007-12-05 11:58

parole matematiche: perimetro

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Questa è una parola che mi sa tanto sia rimasta in testa a chiunque abbia finito le elementari. “Perimetro per apotema diviso due” tornerà sicuramente alla mente come formula esoterica da mormorare nei riti satanici… pardon, matematici; il significato si è perso nelle nebbie dei ricordi – per i curiosi, è la formula per calcolare l’area di un poligono regolare inscritto in una circonferenza – ma tanto si sa che la forza mistica racchiusa nelle parole non richiede di conoscerne il significato, ma solamente il suono.
Ad ogni modo, perimetro è una parola greca, come la maggior parte dei termini geometrici: il suffisso -metro sta per “misurare”, mentre peri- ha il significato di “intorno”, proprio come in “perizoma” e “periferia” (che poi sarebbe il termine greco per “circonferenza”… ma questa è un’altra storia). Il perimetro di una figura è quindi la lunghezza della parte più esterna di una figura; detto in altro modo, la somma delle lunghezze dei vari lati. Sembra ancora di vedere il protogeometra che disegna una figura per terra, pianta dei bastoncini in corrispondenza dei vertici, prende una cordicella e la mette tutta intorno. Misurazione molto pragmatica, non c’è che dire. In italiano non è comunque arrivata direttamente, ma per via del francese périmètre.
Purtroppo gli economisti si sono appropriati della parola, e nei bilanci dei grandi gruppi si legge spesso l’espressione “a parità di perimetro”. In questo caso di poligoni non ne abbiamo, e men che meno di lati. Sempre di somme si parla, in effetti, ma sono le somme dei ricavi, o del numero di dipendenti, delle aziende che fanno parte del gruppo; quindi se ad esempio è stata ceduta una società del gruppo il suo “perimetro” si riduce. So già che cosa state per dirmi: l’analogia corretta non sarebbe con il perimetro, ma con l’area. Ma che pretendete dagli economisti?

Ultimo aggiornamento: 2007-11-21 10:31

Parole matematiche: ipotesi

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
La parola “ipotesi” è greca, e fin qui non ci piove. Magari però non avete mai pensato che esiste un suo perfetto corrispondente latino: “supposizione”. L’etimologia è infatti dal greco hypo-, sotto, e -thesis, il porre. In italiano la parola è attestata a partire dal 1617, dal filosofo Giovanni Botero che lo usava con il significato di “congettura per spiegare fatti di cui non si ha una piena conoscenza”.
Di per sé non è che ci sia una differenza enorme tra l’uso matematico e quello comune: però una differenza c’è. Infatti per un matematico l’ipotesi è sì una supposizione, ma che lui considera vera. Attenzione: l’ipotesi non è vera, ma viene presa per vera, come ad esempio nelle dimostrazioni per assurdo, dove il matematico spera appunto di trovare una contraddizione.
L’ipotesi che troviamo nel discorso comune è invece molto più vicina al significato “filosofico” che ho riportato sopra. L’ipotesi viene infatti buttata lì come spiegazione, e nessuno si preoccupa effettivamente se sia vera o falsa: basta che sembri spiegare i fatti. La differenza di approccio col matematico si vede eccome!

Ultimo aggiornamento: 2007-11-15 11:54

parole matematiche: incommensurabile

(le parole matematiche stanno di casa qui.)
La parola “incommensurabile” è uno di quei termini sicuramente copiati dalla matematica, ma che nel passaggio ha cambiato completamente il suo significato. Nell’uso comune, infatti, una grandezza è incommensurabile se è così enorme che non si riesce a stimarne il valore. Beh, che c’è di male? qualcuno si chiederà. C’è il prefisso in- e il termine “misura”, no? Vero: però manca un pezzo, il -com-, che cambia tutto.
Per un matematico, infatti, non si parla di una grandezza ma di due grandezze tra loro incommensurabili. La dimensione non c’entra nulla; conta solo il fatto che le due grandezze sono tra di loro in rapporto irrazionale, e quindi non si può trovare un sottomultiplo con cui “misurarle” esattamente entrambe. L’esempio canonico di due grandezze incommensurabili è dato dal lato di un quadrato con la sua diagonale, e non si può certo dire che una delle due sia enorme! E in effetti la prima occorrenza italiana della parola è del solito Galileo, che la prese dal latino tardo di Boezio – il primo probabilmente cui venne in mente di coniare il termine, traducendolo dal greco.
Ci si può chiedere il motivo di un simile spostamento di significato: magari è semplicemente legato al fatto che la matematica sembra così complicata che non la si riesce a misurare! In effetti nel 1703 il Viviani ha usato il termine nel significato di “senza adeguato termine di paragone”, e da lì c’è voluto poco a raggiungere il significato attuale. Sappiate però che stanno tutti sbagliando :-)

Ultimo aggiornamento: 2007-11-13 11:10

prodotto; fattore

Per l’acculturazione del volgo, ecco due nuove parole matematiche. La (scarna) lista completa la trovate su Wikispaces.
La parola prodotto non è greca – non sia mai! – ma latina. Deriva infatti da “producere”, che significa “fare avanzare”, letteralmente “guidare avanti”, con la stessa radice verbale che ci ha dato i conducenti e il Duce. In questo senso il verbo italiano si è trasformato in “produrre”, e abbiamo espressioni come il Prodotto Nazionale Lordo che fa sempre bella mostra di sé nei giornali. La prima occorrenza in italiano, nella forma “produtto”, è del solito Dante.
E allora come mai il risultato della moltiplicazione si chiama prodotto? Colpa dei commercianti. Quelli hanno iniziato a parlare del “prodotto della vendita”, che si calcolava moltiplicando il numero di oggetti venduti per il prezzo unitario. Visto che nel Basso Medioevo e ancora tra Umanesimo e Rinascimento i conti li facevano soltanto loro, il nome è rimasto appiccicato: però paradossalmente fino al sedicesimo secolo non se ne trova traccia: si vede che le moltiplicazioni le facevano solo in latino.
Parlando di prodotto, non si possono non menzionare i suoi componenti, vale a dire i fattori.
Il termine “fattore” fa probabilmente venire in mente il contadino che aveva una fattoria (ia, ia, oh!), o almeno lo faceva venire in mente fino a qualche decennio fa; ora non ne sarei più così sicuro. E in effetti, l’etimologia è proprio quella: il termine deriva dal latino “factor”, “fabbricatore”. Nell’antichità industrie non ce n’erano, solo artigiani, e dunque un posto dove si producevano tante cose era per definizione una “fattoria”. La prima occorrenza in italiano della parola “fattore” col significato di “amministratore di un’azienda agricola” risale addirittura al 1288!
Non che il termine nel senso matematico sia poi così posteriore: già nel 1292 qualcuno ha pensato che i numeri che fabbricavano (facevano) il prodotto potessero essere tranquillamente chiamati fattori. Il bello è che non è stato un matematico a usare per la prima volta questa parola – anche perché nessun matematico avrebbe usato il volgare. Non ci crederete, ma la prima occorrenza matematica della parola si trova in… Dante. Sempre lui, inutile: non possiamo farne a meno.
Per curiosità, aggiungo che “fattoriale”, quell’operazione che a partire da un numero ne ottiene uno molto più grande moltiplicando tra loro tutti quelli da 1 fino a lui, deriva sì da fattore, ma con un giro tortuoso: in effetti, la prima occorrenza del termine (nel 1892) aveva il significato “che si riferisce a un fattore”.

Ultimo aggiornamento: 2007-11-05 11:36

Si fa presto a dire media – parte 2

Non penserete mica di esservela cavata, con le medie? Ne sono state definite di tutti i tipi, sempre per la solita ragione che in alcuni casi conviene usare una definizione diversa da quella abituale. Eccovi allora qualche altro tipo di media più esoterica: non garantisco che vi serviranno nella vita di tutti i giorni, ma magari vi permetterà di fare bella figura in società!
La media geometrica è l’evoluzione della media aritmetica, nel senso che invece che avere somma e divisione si usano il prodotto e l’estrazione di radice. Limitandoci a due termini a e b, la loro media geometrica è data da sqrt(ab); inutile dire che se i termini fossero stati N, avremmo
usato la radice N-sima. Il nome di questa media credo derivi dal fatto che se abbiamo un rettangolo di lati a e b, il quadrato della stessa area ha appunto come lato sqrt(ab); quindi ti permette di dire qual è il “segmento medio” quando pensiamo all’area di una figura. Se vogliamo vedere la cosa in un altro modo e nascondere le radici quadrate, possiamo dirla così: se a è la media aritmetica tra m e n, allora n-a = a-m. Se g è la media geometrica tra m e n, allora n/g = g/m.
La media armonica è più complicata da spiegare, visto che è “l’inverso della media aritmetica degli inversi”. Nel caso di due elementi, la formula si semplifica un po’, visto che da 1/((1/2)((1/a)+(1/b))) si può arrivare a scrivere 2ab/(a+b); la fregatura è che nessuno si ricorda mai la formula “semplice”, e quindi si deve tutte le volte manipolare quella “complicata”, ma sicuramente più logica. Mi sarebbe piaciuto poter dire che la media armonica serve per trovare la “nota di mezzo” tra due, ma un po’ di conti fanno subito vedere che non è sempre vero. La media armonica tra un do e quello successivo sulla scala, ad esempio, è un fa e non un fa diesis; la media armonica tra un do e il sol superiore è però effettivamente un mi bemolle, il che ci rende un po’ più felici. Ma niente paura: esiste davvero un tipo di misura per cui la media armonica è quella naturale. Supponiamo che abbia guidato per 10 chilometri alla velocità media di 30 Km/h e per altri 10 chilometri alla velocità media di 60 Km/h: quale sarà la velocità media complessiva? 45 all’ora? No. La media aritmetica sarebbe stata la risposta giusta se avessi guidato per dieci minuti alle due velocità: allora avrei percorso complessivamente 15 chilometri in venti minuti, e i conti sarebbero tornati. Invece ho impiegato venti minuti per fare il primo tratto e dieci per fare il secondo tratto; in tutto sono stato in auto per mezz’ora e ho percorso 20 km, con una media complessiva di 40 Km/h, che guarda caso è la media armonica di 30 e 60. Questa differenza è tra l’altro alla base di un problemino matematico semplice ma fuorviante. Immaginiamo che io voglia percorrere i 200 Km tra Milano e Bologna alla velocità media di 80 Km/h, ma visto il traffico sull’Autosole sia costretto a fare i primi 100 chilometri ai quaranta all’ora. Se d’improvviso dopo Parma sono spariti tutti, a che velocità devo andare per il resto del percorso per raggiungere la media che volevo fare all’inizio?
vari tipi di mediaAnche gli ingegneri, poi, non volevano essere da meno e si sono inventati ancora un altro tipo di media, che chiamano media quadratica oppure valore efficace. Questo tipo di media è utile ad esempio nel caso si voglia calcolare la media di tensione della corrente alternata. La fregatura della corrente alternata è che a volte la tensione è positiva e a volte negativa: se si fa la media aritmetica viene fuori zero, e chiunque si sia preso una scossa capisce che c’è qualcosa che non va. Un approccio naïf potrebbe essere quello di prendere il valore assoluto di tensione e fare la media di quello; ma gli ingegneri – nonostante affermino il contrario – non amano le semplificazioni e hanno così pensato a un approccio più complicato. Per calcolare la media quadratica si prendono i vari valori, li si eleva al quadrato (capito il motivo del nome?), si fa la media dei nuovi valori ottenuti e si estrae la radice quadrata del tutto. In effetti, a dirla così, la cosa sembra davvero un’inutile complicazione: ma gli ingegneri hanno un asso nella manica e dicono che questo tipo di media tiene anche in conto quanto i dati sono dispersi… ma di questo ne parlerò un’altra volta, anche perché dire il vero non è che la cosa mi convinca troppo.
Quello che invece è interessante notare è che non solo se si prendono due numeri positivi tutte queste medie sono diverse tra loro – a meno che i due numeri siano uguali tra loro, ma allora a che ti serve farne la media? – ma sono sempre in un ben preciso ordine di grandezza relativa. Nella figura qui riportata, potete vedere cosa succede: dati due numeri (quelli in grigio in alto: rispettivamente 6 e 24) la media minore è quella armonica H, che nel nostro caso vale 9.6; segue la media geometrica G, che vale 12; poi c’è quella aritmetica A, che è 15; infine si ha la media quadratica E, che vale sqrt(306) e cioè quasi 17.5. Anche se in questo esempio le varie medie sembrano essere tutte ugualmente distanziate tra di loro, questo è un caso; quello che come dicevo non è casuale è l’ordine relativo tra le medie, che è sempre lo stesso. Addirittura per quanto riguarda la media aritmetica e geometrica, che sono le due più usate, la cosa assume il nome pomposo di disuguaglianza aritmetico-geometrica.
Ci sono ancora due tipi di media che si possono trovare leggendo i giornali; anch’esse hanno in fin dei conti diritto di esistenza, e quindi mi pare giusto parlarne un po’. La media pesata si usa… quando si vogliono confrontare mele con pere. No, non è così, ma l’idea è abbastanza simile. Supponiamo di volere calcolare il reddito medio degli italiani, partendo dal reddito medio degli abitanti delle varie regioni. La prima idea potrebbe essere quella di fare la media dei vari redditi. Però la Provincia Autonoma di Bolzano, con meno di mezzo milione di abitanti, ha un reddito quasi triplo della Sicilia, che di abitanti ne ha dieci volte tanto; fare una semplice media funziona peggio dell’esempio di Trilussa del mezzo pollo. Se non ci credete, provate a pensare a due gruppi, uno con dieci persone che non hanno un euro e uno con una singola persona che possiede ben dieci euro; la media non è certo di cinque euro a testa!statistiche su base giornaliera
Il trucco per ottenere un dato sensato è moltiplicare il reddito medio delle singole regioni per il numero di abitanti della regione stessa, fare la media (aritmetica) dei risultati, e dividere il totale per il numero complessivo degli abitanti italiani. Abbiamo pertanto dato un “peso” ai singoli valori, peso calcolato sul numero di abitanti. Scritto così sembra chissà che cosa, ma concettualmente non è che sia poi così complicato: se il reddito medio degli altoatesini è di 40000 euro, e il numero di cittadini è mezzo milione, questo significa che è come se ciascuno di loro avesse quel reddito. Facendo quindi la moltiplicazione otteniamo il reddito totale della Provincia Autonoma, che si può sommare a quello delle altre regioni perché “sono tutte mele” (non c’è la parola “media”). Ma visto che la media dobbiamo alla fine farla, ecco che dopo occorre fare una divisione. Detto in un altro modo, la media pesata è una banale media, dove non si prende un singolo rappresentante per ogni elemento del nostro insieme, ma li si prende tutti, ovviamente dando loro lo stesso valore perché è l’unico che conosciamo. Il bello della media è che è vero che la distribuzione dei redditi tra le singole persone è molto disuguale, ma per fare i conti possiamo fare finta che siano tutti uguali: basta ricordarsi di prenderli però tutti, e non limitarsi a un solo rappresentante.
statistiche su base settimanale La media mobile si può trovare spesso nelle pagine di economia. Prendiamo il valore di un’azione quotata in borsa. Soprattutto se l’azione non è una delle più trattate, da un giorno all’altro ci sono spesso delle variazioni consistenti, che però alla lunga più o meno si annullano. Oppure consideriamo il numero di copie vendute da un giornale – o il numero di lettori del mio blog. Un quotidiano sportivo vende molte più copie il lunedì, mentre per un quotidiano economico il lunedì è una giornata morta; i miei pochi lettori durante il weekend hanno generalmente qualcosa di meglio da fare che vedere se ho scritto qualcosa… o più probabilmente durante la settimana sono così scazzati che pur di fare qualcosa si mettono a leggermi. In ogni caso, il valore di un singolo giorno ha un’importanza relativa, se voglio sapere la tendenza sul lungo periodo. Bene, il sistema più semplice per ridurre l’influsso di valori spuri è quello di calcolare la media su un numero prefissato di valori: sette giorni nel caso del giornale, magari un intero mese per il titolo azionario. Nel primo caso, la variabilità delle quotazioni è semplicemente nascosta dal grande numero di dati usati; nel secondo caso il ragionamento logico che si fa ha una sua correttezza formale, perché confronti dati coerenti, anche se si spostano (ecco il perché la media si chiama “mobile”!) nel tempo. Le due tabelle disegnate qui sopra mostrano il numero di accessi al mio blog nelle ultime sei settimane; converrete che è molto più semplice vedere qual è la tendenza guardando la media mobile settimanale a sinistra, piuttosto che con il grafico giornaliero a destra. Abbiamo ancora una volta di fronte a noi il potere della media: eliminare dettagli inutili per la nostra analisi, e permetterci di concentrarci su quello che ci interessa realmente.
Per calcolare la media mobile su una finestra di N valori, occorre salvarsi tutti gli ultimi N+1 valori. Il procedimento banale consiste nel sommare gli N numeri e poi dividere per N, ma nel caso N sia grande il calcolo potrebbe dimostrarsi tedioso. Un sistema molto più semplice è prendere il valore della media attuale, e sommargli un N-simo della differenza tra il valore attuale e quello a distanza N. Chi ha voglia di fare i conti può vedere come il conto equivale a buttare via il valore più vecchio e mettere al suo posto quello appena trovato, che poi è l’operazione che si vede capitare se ritagliamo una finestrella da un pezzo di carta, la posizioniamo sul foglio con i nostri dati e la spostiamo di una posizione a destra. Come sempre, nulla di complicato, almeno fino a che non te lo nascondono dietro una serie di paroloni!
Per il momento questo è tutto. Non mi sono dimenticato che ho promesso anche di parlare della varianza e di tutte le belle cose correlate, però preferisco non mettere troppa carne al fuoco. Commenti e segnalazioni di errori, imprecisioni e incomprensibilità sono come sempre i benvenuti.

Ultimo aggiornamento: 2007-10-08 14:29