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Parole matematiche: derivata

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Oggi, più che di derivata, si sente parlare di derivati: quei contratti finanziari il cui valore dipende dall’evoluzione di un altro valore. Detto così non significa molto, ma se ce lo traducessero in “se l’azione X cresce dell’1% allora guadagnerai il 10%, ma se l’azione cala dell’1% allora perderai il 10%” magari inizieremo a capire che operare sui derivati non è effettivamente una cosa così bella. Ma che c’entra tutto questo con la derivata, intesa come funzione che viene calcolata mediante dei procedimenti che sembrano tanto esoterici (mai come gli integrali, ammetto però)? Beh, la storia è lunga.
In latino esisteva già il verbo “derivare”, ma con un significato ben diverso. Il termine infatti deriva :-) da “rivus”, ruscello, e aveva il significato di “condurre le acque fuori da”. Questo significato è rimasto ancora oggi nella parola “derivazione”, anche se più che alle acque di un canale si pensa oggi all’aggiunta di un cavo elettrico. Dante usò il verbo con il valore di “avere origine”, ma già nel XVI secolo per Annibal Caro c’era il significato traslato di “trarre, dedurre”. Ed è effettivamente questo il significato che è passato in matematica… solo che all’inizio si parlava di funzioni derivate “in genere”, cioè funzioni che si ottenevano a partire da altre funzioni usando un operatore. Perché poi ci si sia limitati a chiamare così unicamente la funzione ottenuta con l’operatore di differenziazione… mi spiace, ma questa volta non sono riuscito a scoprire il perché. Oggi dev’essere una giornata non delle migliori. Mi sa che dovrà passare ancora un bel po’ d’acqua sotto i ponti (magari deviata…)
Da un certo punto di vista, però, il significato più vicino a quello etimologico resta quello dei prodotti finanziari: basta pensare come posono scorrerci via i soldi se ci mettiamo a giocare pericolosamente in borsa.

Ultimo aggiornamento: 2008-02-15 15:07

parole matematiche: equazione

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Le equazioni, nell’uso corrente, indicano qualche cosa di astruso, il simbolo stesso dell’incomprensibilità. Se uno “parla per equazioni”, significa infatti che sta cercando di fare in modo che a nessuno sia concesso di comprendere gli alti concetti che sta esprimendo… Forse, ma proprio forse, qualche iniziato potrà avere una pallida idea, ma senza esagerare. Secondo me tutto questo è nato perché la q e la z, due lettere dal suono duro e piuttosto rare in italiano come ben sa chi gioca a Scarabeo™, si coalizzano per far sì che esca fuori questo significato; senza contare naturalmente la paura che la matematica incute sempre al 97% della popolazione.
Eppure la radice latina della parola “equazione” è la stessa di “equo”, non naturalmente nel senso di cavallo (equus) ma di “giusto” (aequus). E in effetti le prime occorrenze in italiano di “equazione”, che risalgono addirittura al XIV secolo, hanno proprio il significato di “uguaglianza, pareggiamento”. Bisogna aspettare il 1712 perché Guido Grandi si prenda la parola e la porti nel mondo della matematica, con il significato appunto di uguaglianza. In effetti, se ci pensate bene, in un’equazione c’è un segno di uguale. Ancora nel diciannovesimo secolo, quando il termine entra anche nell’ambito della chimica, rimane in quel significato; è solo col passare degli anni che l’enfasi si sposta alla risoluzione, e quindi al trovare il valore dell’incognita o delle incognite ivi presenti… fino appunto ad arrivare all’incomprensibilità di cui scrivevo all’inizio!

Ultimo aggiornamento: 2008-02-07 13:09

parole matematiche: cardinale

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
I cardinali, intesi come gli alti prelati della chiesa cattolica, sono così comuni in Italia che penso chiunque abbia sentito nominare il termine. Magari però a molti di loro non è mai venuto in mente di scoprire da dove giunga questa parola, e men che meno immaginano che anche i matematici hanno i loro cardinali!
L’origine della parola è latina: cardus significa “appoggio, cardine”, proprio come quelli su cui una porta gira su se stessa. Poi, per un torinese come me, il cardo è la strada principale di un accampamento romano, assieme al decumano che gli è perpendicolare… ma qua andiamo un po’ fuori dal seminato. Quello che conta è che “cardinale” sta a significare come senso traslato “qualcosa di fondamentale”: i cattolici, oltre ai prìncipi della Chiesa, parlano anche di virtù cardinali – prudenza, fortezza, giustizia e temperanza, da non confondersi con fede, speranza e carità che sono virtù teologali – mentre i cartografi parlano di punti cardinali.
I matematici sono arrivati molto più tardi a sfruttare il nome: bisogna infatti aspettare la seconda metà del XIX secolo, quando sono iniziati tutti i dibattiti sui fondamenti della matematica e si è iniziato ad osservare piu attentamente i numeri naturali. Ci si è così accorti che da una parte i numeri potevano essere visti nel loro ordine appunto naturale (primo, secondo, terzo…), e hanno chiamato quei numeri ordinali; ma potevano anche essere visti ciascuno per conto proprio, guardando la loro grandezza. In questo caso, probabilmente, hanno ritenuto che questo fosse il concetto fondamentale, e così nel 1865 è entrato nel linguaggio matematico il termine “numero cardinale”. Poi è arrivato Georg Cantor, che ha deciso che i cardinali potevano anche essere infiniti, e quindi i cardinali intesi come numeri si sono espansi più dei cardinali intesi come prelati. Addirittura, una volta che i logici si sono fatti prendere la mano, sono nati concetti astrusi come quello dei cardinali inaccessibili, che possono esistere ma non si possono definire come limite di altri cardinali; insomma, qualcosa di evanescente, anche perché dipende da una serie di assiomi che si vuole accettare come veri. Un bel salto, a partire dal significato iniziale: non trovate?

Ultimo aggiornamento: 2007-12-12 12:09

giochiamo a dadi?

(ok, non ho scritto sulla tombola, anche se qualche idea ce l’ho. Però forse il concetto non è così diverso. E già che ci siete, fate un salto da proooof che spiega come funziona il gioco del 15!)
tre dadiOggi mi sento particolarmente buono e desideroso di farvi vincere un po’ di soldini: vi propongo quindi un gioco d’azzardo tutto per voi. Le regole sono semplicissime: voi scegliete un numero da uno a sei e fate la vostra puntata; a questo punto io lancerò tre dadi (che garantisco essere perfettamente equilibrati). Se uno dei dadi uscirà con il numero da voi puntato, vincete la posta giocata (in pratica, se avete puntato un euro ve ne darò indietro due); se i dadi con il vostro numero sono due, vincerete due volte la posta; se avete più culo che anima e tutti e tre i dadi mostrano il vostro numero, vi pagherò ben cinque volte la posta. Tutto qua: non c’è trucco non c’è inganno.
Pensateci un attimo: preso un singolo dado, avete una possibilità su sei che esca con il vostro numero, quindi se puntate sempre un euro vi succederà che in media ogni sei euro giocati ve ne tornano indietro due. I dadi sono tre, e assolutamente indipendenti tra loro: quindi il gioco sarebbe equo se con tre numeri uguali al vostro usciti vinceste tre volte la posta, ma io sono buono e in quel caso vi pago anche di più. Insomma, la cosa si direbbe interessante, no?
Molto interessante, direi… tanto che casinò di tutto il mondo prevedono questo gioco, anche se in genere non danno il mio superbonus. Come si può leggere su Wikipedia (inglese), il gioco si può trovare in Gran Bretagna (col nome di Crown and anchor, “corona e ancora”, perché i dadi usati hanno sulle facce i quattro semi delle carte da gioco e appunto una corona e un’ancora), negli Stati Uniti come Chuck-a-luck, nelle Fiandre come Anker en Zon, “ancora e sole”, in Francia come Ancre, Pique et Soleil, e addirittura in Vietnam come “bau bau micio micio”… no, scusate, Bau cua ca cop che non so assolutamente cosa significhi ma sembra usi delle belle immagini orientali al posto dei nostri semi, soli, e simili. Magari a questo punto vi sarà venuto qualche dubbio! Bene, sono qua per fugarveli.
Analisi del gioco
Per vedere come mai il banco ha un discreto vantaggio in questo gioco, il metodo che probabilmente viene in mente è provare tutte le 216 (cioè 6*6*6) combinazioni possibili lanciando tre dadi, calcolare la vincita in ciascuno di questi casi, e vedere se è maggiore o minore del numero di combinazioni possibili. Tranquilli, non ho nessuna voglia di farlo, sono quelle cose che vi fanno poi dire che odiate la matematica: e avete perfettamente ragione. La matematica non è “fare i conti”. Può essere in parte “sapere come fare i conti” (e poi infilarli dentro un programma al pc o anche solo un foglio excel), ma è soprattutto “vedere come si può arrivare alla soluzione del problema con la minore fatica possibile”… e ogni trucco, finché è “lecito” secondo le regole della matematica, è il benvenuto.
In questo caso, il metodo più semplice è pensare di puntare un euro su ciascuno dei sei numeri che possono uscire, e vedere cosa succede. In teoria dovremmo, almeno in media, ricevere sei euro o più per ogni possibilità. È proprio così? Vediamo.
– se i tre numeri che sono apparsi sono tutti diversi, vi tornano indietro tre degli euro giocati più tre di vincita: totale sei euro.
– se i tre numeri sono tutti uguali, vi torna indietro l’euro giocato su quel numero più cinque di vincita: totale sei euro.
– se ci sono due numeri uguali e un terzo diverso, vi tornano indietro due degli euro giocati, più uno di vincita per il singoletto, più due per la coppia: totale cinque euro.
Toh. Quando va bene siete in pareggio, ma ci sono delle volte in cui perdete; quindi in assoluto il gioco vi è sfavorevole. Fine della dimostrazione.
Purtroppo, per sapere quanto sia sfavorevole, bisogna fare i conti, e quindi devo andare contro quello scritto sopra su cos’è la matematica. Facciamo che vi fidate, e prendete per buono il risultato finale: una volta puntato su un numero prefissato, ci sono 75 casi in cui questo esca come singoletto, 15 in cui esce come coppia e uno in cui c’è la tripletta (negli altri casi non esce), il che con le regole che ho dato sopra significa un vantaggio per il banco praticamente del 7%, ben più ad esempio della roulette. State insomma ben lontani da chi vi propone questo gioco, lo dico per il vostro bene.
La spiegazione
Questo sembrerebbe proprio essere un paradosso: in fin dei conti il ragionamento iniziale secondo cui se il dato lanciato fosse stato uno solo si sarebbe in media rimasti con un terzo della posta non fa una grinza, e siamo tutti d’accordo che i tre dadi lanciati sono indipendenti tra loro… o no? abbiamo trovato una scoperta di importanza pari alla meccanica quantistica? Tranquilli, non è così. Nemmeno stavolta ci daranno il Nobel. Però, se guardate attentamente la dimostrazione “veloce” che ho scritto qui sopra per far vedere che il gioco non è equo, dovreste essere in grado di intuire dove sono “il trucco e l’inganno”. Se invece non avete proprio voglia di scervellarvi, continuate a leggere qui di seguito!
Il punto chiave che permette di capire cosa succede è fare attenzione a come vengono calcolate le vincite. I soldi che ti ritornano indietro sono in parte quelli della vincita vera e propria, ma in parte quelli che sono stati puntati. Quindi è vero che i risultati dei lanci dei dadi, intesi come numeri che escono, sono indipendenti tra di loro; ma il nostro risultato, inteso come i soldi che ci ritornano indietro, non lo è. Se abbiamo puntato un euro su un numero, con il primo dado che esce con quel numero ci tornano indietro due euro, ma con il secondo se ne aggiunge uno solo in più, e non due come nel caso di vera indipendenza.
È più chiaro adesso il tutto? Se no, potete sempre scrivermi :-)

Ultimo aggiornamento: 2007-12-05 11:58

parole matematiche: perimetro

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Questa è una parola che mi sa tanto sia rimasta in testa a chiunque abbia finito le elementari. “Perimetro per apotema diviso due” tornerà sicuramente alla mente come formula esoterica da mormorare nei riti satanici… pardon, matematici; il significato si è perso nelle nebbie dei ricordi – per i curiosi, è la formula per calcolare l’area di un poligono regolare inscritto in una circonferenza – ma tanto si sa che la forza mistica racchiusa nelle parole non richiede di conoscerne il significato, ma solamente il suono.
Ad ogni modo, perimetro è una parola greca, come la maggior parte dei termini geometrici: il suffisso -metro sta per “misurare”, mentre peri- ha il significato di “intorno”, proprio come in “perizoma” e “periferia” (che poi sarebbe il termine greco per “circonferenza”… ma questa è un’altra storia). Il perimetro di una figura è quindi la lunghezza della parte più esterna di una figura; detto in altro modo, la somma delle lunghezze dei vari lati. Sembra ancora di vedere il protogeometra che disegna una figura per terra, pianta dei bastoncini in corrispondenza dei vertici, prende una cordicella e la mette tutta intorno. Misurazione molto pragmatica, non c’è che dire. In italiano non è comunque arrivata direttamente, ma per via del francese périmètre.
Purtroppo gli economisti si sono appropriati della parola, e nei bilanci dei grandi gruppi si legge spesso l’espressione “a parità di perimetro”. In questo caso di poligoni non ne abbiamo, e men che meno di lati. Sempre di somme si parla, in effetti, ma sono le somme dei ricavi, o del numero di dipendenti, delle aziende che fanno parte del gruppo; quindi se ad esempio è stata ceduta una società del gruppo il suo “perimetro” si riduce. So già che cosa state per dirmi: l’analogia corretta non sarebbe con il perimetro, ma con l’area. Ma che pretendete dagli economisti?

Ultimo aggiornamento: 2007-11-21 10:31

Parole matematiche: ipotesi

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
La parola “ipotesi” è greca, e fin qui non ci piove. Magari però non avete mai pensato che esiste un suo perfetto corrispondente latino: “supposizione”. L’etimologia è infatti dal greco hypo-, sotto, e -thesis, il porre. In italiano la parola è attestata a partire dal 1617, dal filosofo Giovanni Botero che lo usava con il significato di “congettura per spiegare fatti di cui non si ha una piena conoscenza”.
Di per sé non è che ci sia una differenza enorme tra l’uso matematico e quello comune: però una differenza c’è. Infatti per un matematico l’ipotesi è sì una supposizione, ma che lui considera vera. Attenzione: l’ipotesi non è vera, ma viene presa per vera, come ad esempio nelle dimostrazioni per assurdo, dove il matematico spera appunto di trovare una contraddizione.
L’ipotesi che troviamo nel discorso comune è invece molto più vicina al significato “filosofico” che ho riportato sopra. L’ipotesi viene infatti buttata lì come spiegazione, e nessuno si preoccupa effettivamente se sia vera o falsa: basta che sembri spiegare i fatti. La differenza di approccio col matematico si vede eccome!

Ultimo aggiornamento: 2007-11-15 11:54

parole matematiche: incommensurabile

(le parole matematiche stanno di casa qui.)
La parola “incommensurabile” è uno di quei termini sicuramente copiati dalla matematica, ma che nel passaggio ha cambiato completamente il suo significato. Nell’uso comune, infatti, una grandezza è incommensurabile se è così enorme che non si riesce a stimarne il valore. Beh, che c’è di male? qualcuno si chiederà. C’è il prefisso in- e il termine “misura”, no? Vero: però manca un pezzo, il -com-, che cambia tutto.
Per un matematico, infatti, non si parla di una grandezza ma di due grandezze tra loro incommensurabili. La dimensione non c’entra nulla; conta solo il fatto che le due grandezze sono tra di loro in rapporto irrazionale, e quindi non si può trovare un sottomultiplo con cui “misurarle” esattamente entrambe. L’esempio canonico di due grandezze incommensurabili è dato dal lato di un quadrato con la sua diagonale, e non si può certo dire che una delle due sia enorme! E in effetti la prima occorrenza italiana della parola è del solito Galileo, che la prese dal latino tardo di Boezio – il primo probabilmente cui venne in mente di coniare il termine, traducendolo dal greco.
Ci si può chiedere il motivo di un simile spostamento di significato: magari è semplicemente legato al fatto che la matematica sembra così complicata che non la si riesce a misurare! In effetti nel 1703 il Viviani ha usato il termine nel significato di “senza adeguato termine di paragone”, e da lì c’è voluto poco a raggiungere il significato attuale. Sappiate però che stanno tutti sbagliando :-)

Ultimo aggiornamento: 2007-11-13 11:10

prodotto; fattore

Per l’acculturazione del volgo, ecco due nuove parole matematiche. La (scarna) lista completa la trovate su Wikispaces.
La parola prodotto non è greca – non sia mai! – ma latina. Deriva infatti da “producere”, che significa “fare avanzare”, letteralmente “guidare avanti”, con la stessa radice verbale che ci ha dato i conducenti e il Duce. In questo senso il verbo italiano si è trasformato in “produrre”, e abbiamo espressioni come il Prodotto Nazionale Lordo che fa sempre bella mostra di sé nei giornali. La prima occorrenza in italiano, nella forma “produtto”, è del solito Dante.
E allora come mai il risultato della moltiplicazione si chiama prodotto? Colpa dei commercianti. Quelli hanno iniziato a parlare del “prodotto della vendita”, che si calcolava moltiplicando il numero di oggetti venduti per il prezzo unitario. Visto che nel Basso Medioevo e ancora tra Umanesimo e Rinascimento i conti li facevano soltanto loro, il nome è rimasto appiccicato: però paradossalmente fino al sedicesimo secolo non se ne trova traccia: si vede che le moltiplicazioni le facevano solo in latino.
Parlando di prodotto, non si possono non menzionare i suoi componenti, vale a dire i fattori.
Il termine “fattore” fa probabilmente venire in mente il contadino che aveva una fattoria (ia, ia, oh!), o almeno lo faceva venire in mente fino a qualche decennio fa; ora non ne sarei più così sicuro. E in effetti, l’etimologia è proprio quella: il termine deriva dal latino “factor”, “fabbricatore”. Nell’antichità industrie non ce n’erano, solo artigiani, e dunque un posto dove si producevano tante cose era per definizione una “fattoria”. La prima occorrenza in italiano della parola “fattore” col significato di “amministratore di un’azienda agricola” risale addirittura al 1288!
Non che il termine nel senso matematico sia poi così posteriore: già nel 1292 qualcuno ha pensato che i numeri che fabbricavano (facevano) il prodotto potessero essere tranquillamente chiamati fattori. Il bello è che non è stato un matematico a usare per la prima volta questa parola – anche perché nessun matematico avrebbe usato il volgare. Non ci crederete, ma la prima occorrenza matematica della parola si trova in… Dante. Sempre lui, inutile: non possiamo farne a meno.
Per curiosità, aggiungo che “fattoriale”, quell’operazione che a partire da un numero ne ottiene uno molto più grande moltiplicando tra loro tutti quelli da 1 fino a lui, deriva sì da fattore, ma con un giro tortuoso: in effetti, la prima occorrenza del termine (nel 1892) aveva il significato “che si riferisce a un fattore”.

Ultimo aggiornamento: 2007-11-05 11:36