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di quale matematica avete parlato questo mese?

Ricordo ai miei affezionati lettori che qui non si parla solo di Silvio B., ma ad esempio anche di matematica.
Questa volta, per la precisione, parlo di metamate, e vi ricordo che tra sei giorni (venerdì 14 novembre) ci sarà la settima edizione del Carnevale della Matematica, ospitato sul blog di Marcello Seri. Invito quindi a scrivergli, a proposteblog - chiocciola - gmail - punto - com, raccontandogli di quale matematica avete parlato… oppure potete cogliere l’occasione per scriverne adesso!

Ultimo aggiornamento: 2008-11-08 19:26

Medie paradossali

La media aritmetica, di cui ho già parlato in passato, sembra in fin dei conti una cosa piuttosto tranquilla. Sì, è vero che non è sempre proprio il numero migliore per rappresentare schematicamente e con poca spesa un insieme di elementi: una famiglia con 1,6 figli, ad esempio, non la vediamo certo in giro. Però possiamo immaginare che la media aritmetica sia per così dire un numero “stabile”, visto che in un certo qual modo tempera gli eccessi dei singoli elementi. Ma non sempre è così! Eccovi tre paradossi, che vanno contro quello che ci aspetteremmo da una funzione per così dire civile.
1. Non è detto che si possa sempre trovare una velocità media
Sappiamo che calcolare la velocità istantanea a cui ci stiamo muovendo non è in realtà possibile, visto che per trovarla dobbiamo dividere lo spazio percorso per il tempo impiegato, e otterremmo un’espressione 0/0. Insomma, Newton e Leibniz, quando hanno inventato il calcolo differenziale, hanno ben avuto dei problemi, no? Quello che facciamo in pratica è calcolare la distanza percorsa in un’intervallo di tempo molto piccolo, calcolare la velocità media in quell’intervallo, e sperare che intanto la velocità sia rimasta costante. Ma anche se la velocità cambia nel tempo, possiamo immaginare che, se ad esempio la velocità media durante un percorso è di 100 Km/h, possiamo trovare un intervallo di un’ora – anche se a priori non si sa a che istante farlo iniziare – in cui si siano percorsi esattamente 100 chilometri. Ovvio, no? Basta fare un grafico spazio-tempo, costruire una finestrella equivalente a un’ora, e spostarla man mano. Scommetto che ci deve anche essere un teorema che si studia in analisi matematica!
[un viaggio un poco strano]Peccato che non sia per nulla vero. Supponiamo di fare un percorso di 250 km in due ore e mezzo, quindi a una media di cento all’ora, alla velocità indicata nella figura qui a fianco: nella prima, terza e quinta mezz’ora andiamo a 92 Km/h, e nella seconda e quarta a 112 Km/h. Prendiamo adesso un qualunque istante iniziale; nell’ora successiva avremo fatto esattamente trenta minuti alla velocità maggiore e gli altri 30 a quella minore, percorrendo dunque 102 chilometri. Ma avremmo potuto anche fare diversamente: se i vari tratti fossero stati percorsi rispettivamente a 88 e 108 Km/h, in un qualunque tratto di un’ora la distanza totale percorsa è di 98 chilometri. D’accordo, gli esempi numerici che ho fatto sono impossibili da ottenersi in pratica, ma non è difficile modificarli per ottenere lo stesso risultato con una tabella di marcia verosimile: non l’ho fatto perché non vale la pena di complicare i conti da fare.
Dov’è il trucco? Il trucco è che non c’è nessun trucco! Se avessi scelto come unità di misura un sottomultiplo esatto del tempo totale percorso (nel nostro caso mezz’ora, oppure 50 minuti) il ragionamento fatto sopra sarebbe stato corretto. Se dividiamo esattamente il percorso in tante parti, o tutte le parti hanno la stessa velocità media oppure ci sono due parti vicine, una con velocità media inferiore e una superiore alla media globale, e in questo caso il ragionamento ella finestrella funziona. Nel nostro caso non possiamo dividere il percorso in questo modo, quindi il ragionamento non regge.
2. Anche se due medie parziali crescono, la media delle medie decresce
Uno potrebbe immaginare che la media di due medie sia in un certo senso coerente: se le medie parziali crescono nel tempo, anche quella globale deve crescere. Peccato che nemmeno in questo caso l’affermazione sia vera! In letteratura, il fatto è noto come Paradosso di Simpson: la pagina su wikipedia fa un esempio numerico del paradosso, esempio che riprendo qua. Supponiamo di avere questa ipotetica situazione:

Lavoratori senza diploma  con diploma  Totale
Giovani 20 80 100
Anziani 120 30 150
Totale 140 110 250

e la statistica seguente su quanti di questi lavoratori siano disoccupati:

Tasso disoccupaz.  senza diploma con diploma
Giovani 30% 15%
Anziani 5% 3,33%

Come si vede, sia tra i giovani che tra gli anziani il maggior numero di disoccupati si ha tra chi non è diplomato. Se però si calcola il numero esatto di lavoratori disoccupati a partire dalle percentuali, e si ricava qual è la percentuale complessiva di disoccupati, senza considerare le età. Come si può vedere, in realtà i disoccupati diplomati sono percentualmente di più di quelli non diplomati!

% disoccupati
senza diploma  12/140 = 8,6%
con diploma  13/110 = 11,8%

Di nuovo, non c’è trucco e non c’è inganno. I numeri sono proprio quelli, e di qui non si scappa. Quello che succede è che c’è una correlazione implicita tra i dati, nel senso che ci sono molti più disoccupati giovani che anziani, e molti più diplomati giovani che anziani. La media normalizza, e quindi non ci fa più vedere questa differenza nei valori assoluti; differenza che però c’è, come si vede nella tabella dei valori assoluti qui sotto, e che porta appunto al risultato apparentemente paradossale.

Disoccupati  senza diploma con diploma Totale
Giovani  6 12 18
Anziani  6 1 7
Totale 12 13 25

Insomma, prima di trarre conclusioni dai valori delle medie parziali, state sempre attenti a vedere quali sono i dati originali!
3. Se A è in media meglio di B, e B è meglio di C, C può essere in media meglio di A
[quattro dadi un poco particolari]D’accordo: non si può nemmeno fare la media delle medie. Però almeno la media una proprietà transitiva ce l’avrà bene, no? Insomma, se in media la scelta A è preferibile a B e la B a C, è ovvio che A è preferibile a C, no? Beh, non proprio. Supponiamo di avere i seguenti quattro dadi qui a fianco. Lanciamo ora i dadi A e B. In media B darà il risultato maggiore in quattro casi su sei: quando esce 5 (tre volte su sei) e quando esce 1 ma con A esce 0 (3/6 * 2/6, cioè una volta su sei). Se lanciamo i dadi B e C, in media C darà il risultato maggiore in quattro casi su sei: quando esce 6 (due volte su sei) e quando esce 2 ma con B esce 1 (4/6 * 3/6, cioè due volte su sei). Se lanciamo i dadi C e D, il conto è ancora più facile; C vince se e solo se esce 6, quindi in due casi su sei, e pertanto D vincerà in media in quattro casi su sei.
Ricapitoliamo: B supera A in media 4 volte su 6; C supera B in media 4 volte su 6; D supera C in media 4 volte su 6. Prendiamo ora A e D; è immediato che A vince se e solo se esce 4, quindi 4 volte su sei. Oops… non era D che avrebbe dovuto vincere quattro volte su sei? Ecco, appunto. Ve l’avevo detto di stare attenti. Ancora una volta non c’è nessun paradosso, in realtà: semplicemente, quando si hanno più di due scelte possibili le preferenze non sono transitive. Per la cronaca, ci si può anche limitare a tre soli dadi, mettendoci su i valori (3 3 5 5 7 7), (2 2 4 4 9 9), (1 1 6 6 8 8). In questo caso, però, i conti da fare sono un po’ più complicati, e quindi ho preferito un esempio non minimale ma più semplice da vedersi. Un suggerimento: provate a costruire i quattro dadi, e invitare qualche amico a fare una partitina, lasciandogli graziosamente scegliere ogni volta per primo quale dado lanciare…
(Il tutto è stato ispirato dall’articolo di Philippe Boulanger Il n’y a pas moyen de moyenner!, Jeux Math, Dossier Pour La Science, Avr-Jui 2008)

Ultimo aggiornamento: 2008-10-11 07:00

Parole matematiche: ordine, ordinale, ordinata, ordinamento

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
La parola “ordine” è onnipresente nella lingua italiana: la possiamo trovare in politica, con gli “uomini d’ordine”, l'”ordine pubblico”; tra le casalinghe, che vogliono avere “la casa in ordine”; nei teatri, che si tengono gli ordini di poltrone; in botanica e zoologia per definire un essere vivente, e in architettura per indicare il tipo di colonne. Riesce persino a mettere d’accordo fanti e santi, rispettivamente con l’ordine cui ubbidire e l’ordine religioso cui appartenere, o con gli ordini che un prete prende. Insomma, una parola davvero per tutti gli usi. Eppure non se ne conosce l’origine. Sì, deriva dal latino ordo, ordinis, e fin qua ci si arriva. Ma la parola latina è di incerta origine: il DELI pensa derivi da un termine tecnico per indicare i fili dell’ordito, che poi è passato a “fila”, “posizione nella fila”, “posizione nella battaglia”, “comando”. Si vede che già i latini la usavano molto. Per etimo.it, invece, la radice or- è la stessa di “iniziare” (origine, oriente…), e quindi starebbe per “modo di procedere”. Vabbè. In ogni caso è chiaro che sono stati i matematici a rubare la voce al linguaggio comune, visto che il significato di “disposizione armonica” è attestato addirittura prima del Trecento e quello di “ordine religioso” si trova nel Boccaccio.
In matematica si usa direttamente la parola “ordine” in vari contesti. L’ordine di un gruppo è il numero di elementi del gruppo stesso; una relazione d’ordine, parziale o totale, è quella dove dati due elementi di un insieme puoi generalmente dire se uno è “prima” o “dopo” l’altro, e quindi metterli in ordine (magari non completo, se la relazione è parziale); la logica del primo ordine è quella ad esempio dei sillogismi, dove “se ogni uomo è mortale, e Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale”. Ma tutti questi sono esempi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Più interessante vedere che già intorno al 1750 venivano usati dei derivati del termine. Abbiamo infatti l’ordinata, che è la sorella dell’ascissa, quindi l’asse verticale quando facciamo il grafico cartesiano; e soprattutto l’ordinale, che è “il numero che indica la posizione di un elemento in un insieme ben ordinato”; il numerino romano dopo il nome dei re e dei papi nel linguaggio comune, e uno dei due modi di contare i numeri interi assieme ai cardinali. I modi sono due perché appunto negli ordinali li si mette tutti in ordine, mentre nei cardinali si fa il mucchio e ci si accontenta che siano distinti. Non è un problema di pignoleria, perché non appena si arriva agli insiemi infiniti si scopre che infiniti numeri ordinali corrispondono allo stesso numero cardinale. Ah, sì: a proposito di numeri infiniti, un’altra frase moderna è il buon ordinamento, dove si riesce a mettere un insieme in ordine in modo che ogni suo sottinsieme abbia un elemento “primo della fila”. Teoricamente va benissimo, in pratica nessuno è mai riuscito a trovare un buon ordinamento dei numeri reali tra 0 e 1, il che fa capire che non dev’essere un concetto così banale.
Abbiamo insomma una parola davvero versatile, non solo nella lingua comune ma anche in quella dei matematici! E dulcis in fundo, una chicca straniera. In francese il calcolatore (che per me dovrebbe essere un elaboratore, ma tant’è) si dice ordinateur. È sempre il nostro ordine! Ehm… non quello ufficiale, visto che la persona che mette in ordine sarebbe al più un ordonnateur: al limite ordinateur potrebbe essere stato un vescovo. Ma non sottilizziamo.

Ultimo aggiornamento: 2008-10-09 07:00

I ventitré problemi matematici (nuova versione)

I miei lettori che masticano di matematica (gli altri mi sa che non sono nemmeno arrivati a leggere questa riga), quando si dice loro “i ventitré problemi”, pensano subito a David Hilbert e alla sua lista di problemi presentata al Congresso Internazionale dei Matematici del 1900. Forse non tutti sanno che a dire il vero Hilbert non riuscì a presentare tutti i problemi durante il suo intervento, perché gli finì il tempo a disposizione. Si sa, questi accademici… Ad ogni modo, questi problemi sono stati molto importanti per lo sviluppo della matematica nel ventesimo secolo, sia quando sono stati risolti (positivamente o negativamente) sia nel caso in cui abbiano resistito a tutti gli assalti; i Clay Problems, in confronto, sono molto meno interessanti, o forse troppo pochi (sono solo sette, anche se è vero che danno un milione di dollari a chi ne risolve uno).
In questi giorni, però, il DARPA ha deciso di proporre una nuova serie di problemi, sotto il nome di “Mathematical Challenges”, con lo scopo di “dramatically revolutionizing mathematics and thereby strengthening DoD’s scientific and technological capabilities.” (il DoD è il Department of Defence statunitense, lo dico per i pacifisti che passano di qua). Potete leggere i problemi su Network World, e vedere che effettivamente sono ventitré: non ho ben capito come verrebbero assegnati dei fondi al loro riguardo, ma da quel sito potete passare al documento ufficiale. Se non ricordo male, se ne parlava già l’anno scorso, e magari ne ho anche parlato anch’io, ma adesso a quanto pare le domande sono state formalizzate. La cosa che dovrebbe saltare all’occhio di tutti è che ci sono pochissime domande di matematica pura, ma poche anche di matematica applicata alla fisica, a differenza di quanto accadeva nei secoli passati. I campi più interessanti sembrano l’informatica, e fin qua non c’è nulla di strano, e la biologia. L’altra cosa che ho notato è che ho difficoltà a comprendere parecchie delle domande, altro che trovare delle risposte!

Ultimo aggiornamento: 2008-09-30 15:25

parole matematiche: grado

(la lista delle parole matematiche si trova qua!)
Per un matematico, la parola grado fa venire in mente la misura di un angolo (occhei, un Vero Matematico li misura in radianti – e anche questa sarebbe una bella parola matematica – ma anche noi sappiamo adattarci al resto del mondo) oppure la temperatura. Una persona qualunque invece pensa ai gradi dell’esercito o del vino; e magari usa la locuzione “in massimo grado”. Stavolta la parola ha sempre lo stesso significato, ma ha dovuto fare una lunga marcia per arrivare al significato odierno!
In effetti, grado deriva dal latino gradus, -us, un nome della quarta declinazione, ricavato dalla stessa radice del verbo deponente gradi, “avanzare, camminare”. Il gradus latino era inizialmente il passo, e poi lo scalino, quello che noi chiamiamo ora “gradino”. (Il “gradasso” non c’entra, invece: Gradasso è il nome di un guerriero saraceno). Ma già i latini avevano traslato il significato di gradus per indicare il risultato della suddivisione del cerchio: lo troviamo persino nella Bibbia! (Is 38,8). Non c’è così voluto molto per mantenere tale significato. A questo punto il suddividere qualcos’altro era solo questione di tempo, e Francesco Redi parla di gradi di temperatura nel 1660. Sulla gradazione alcolica non ho informazioni precise, mi spiace.
La morale di tutto questo? Spesso è difficile accorgersi che una parola è usata allo stesso modo in ambiti diversi, ma solo perché non ci si pensa su! Occorre però riconoscere che altre volte non è così: il gradiente, che misura la variazione di una quantità rispetto a una direzione, deriva sempre da grado ma è irriconoscibile…

Ultimo aggiornamento: 2008-09-11 10:36

1,00 = 1?

Termino la “trilogia delle uguaglianze”, iniziata con la dimostrazione che 0,999999… è uguale a 1 e continuata con la dimostrazione che magari i due numeri non sono proprio uguali, con un terzo esempio. Chi salta a piè pari la mia roba matematica stavolta può fare uno sforzo e andare avanti: garantisco che di conti e formule stavolta non ce ne sono.
Sono certo che per la maggior parte di voi chiedersi se 1,00 è uguale a 1 è quasi un’eresia. Già alle elementari ci è stato spiegato che gli zeri a destra dopo la virgola sono asolutamente inutili se non sono seguiti da un’altra cifra, e quindi si possono togliere senza problemi. Tranquilli: vi assicuro che un matematico vi dà perfettamente ragione, e non credo proprio esistano teorie che prevedano che 1,00 abbia un valore diverso da 1. In fin dei conti, qui non ci sono paradossi con l’infinito, e quindi le operazioni funzionano regolarmente come siamo abituati, senza nulla di preoccupante. Ma il mondo non è fatto solo da matematici!
Iniziamo con i fisici, gli acerrimi nemici dei matematici. Per loro dire 1 oppure 1,00 sono due cose ben diverse: il tutto ha origine dal fatto che loro non pensano ai numeri come entità pure, ma come il risultato di una misura. Quando un matematico parla di pi greco, per lui quello è un numero ben preciso: potrà magari approssimarlo se mai gli toccherà di dover ricavare un numero da un’espressione algebrica, ma il numero resta appunto un numero. Quando un fisico dice che la luce nel vuoto viaggia a 300000 Km/sec, quel dato non è un numero ma una misura, che è inevitabilmente un’approssimazione: il fisico ovviamente lo sa, e non si preoccupa più di tanto… a meno che sia uno che cerchi di rendere la misura ancora più precisa. Al momento, ad esempio, si afferma che la luce nel vuoto percorre 299792,458 Km/sec; ma nella migliore delle ipotesi possiamo dire che sono più di 299792,457 e meno di 299792,459 Km/sec, e nessuno pensa che in un secondo la luce percorra un numero esatto di metri.
Il modo più completo per indicare quanto ci si possa fidare di una misura è infatti quello di aggiungere al valore della misura l’errore (statistico) che ci si aspetta aver fatto: si può ad esempio affermare che una costante di natura valga 2,573 più o meno 0,0022. Ma c’è un secondo modo, che consiste nell’indicare solo il numero di cifre di cui si è certi. Nel caso fittizio qui sopra, si scrive 2,57 e si suppone che il lettore sappia non solo che non è un valore perfetto ma approssimate, come 3,14 per pi greco; ma anche che si è certi di quelle tre cifre ma non delle successive. In questo caso, scrivere 1,00 è molto diverso che scrivere 1. Infatti nel primo caso possiamo immaginare il valore compreso tra 0,995 e 1,005, mentre nel secondo lo dobbiamo immaginare tra 0,5 e 1,5. È un po’ come dire “proprio lì” invece che “da quelle parti”: si indica sempre lo stesso punto, ma si intendono cose ben diverse.
Per chi non è ancora convinto della cosa – e sono sicuro che parecchi dei miei lettori sono tra questi – faccio ancora un esempio. Se dico che il giocatore di basket X è alto due metri, voi siete convinti che è alto esattamente come il giocatore Y, indicato nell’annuario come alto 2,00 metri? Probabilmente no, penserete solo che è più o meno della stessa altezza; ma se avessi detto che è “due metri e zero zero” allora sì che X e Y sono alti uguali.
Ma c’è ancora un’altra scienza in cui l’eguaglianza può non valere, ed è l’informatica. In effetti, 1,00 è con ogni probabilità uguale a 1, ma ad esempio 0,100 non è esattamente 1/10; ma nemmeno 0,1 lo è. Il motivo qui è diverso, e dipende dalla rappresentazione dei numeri all’interno di un calcolatore. Lo spazio per conservare il valore di un numero è limitato: quattro, otto o al limite 16 byte, se non si usano codifiche speciali. Per i numeri interi non troppo grandi, tali codifiche vanno più che bene; ma per i numeri “reali” bisogna usare un’approssimazione. La fregatura è che i calcolatori operano in base 2, e quindi i numeri “tondi” per noi non lo sono affatto per un PC. Per esempio, 0,1 in base 2 si scrive 0,0(0011), dove la parte tra parentesi si ripete all’infinito; quindi il numero memorizzato sarà leggermente diverso.
Noi non ce ne accorgiamo, perché quello che viene mostrato è un numero arrotondato proprio per evitare di trovarci con una sfilza di cifre nella maggior parte dei casi inutili, ma è così… a meno che non si applichi la notazione a virgola fissa, che però usa degli interi e li divide per un’opportuna potenza di dieci quando li mostra. Un software che deve fare i conti in euro probabilmente usa una virgola fissa in seconda posizione, il che significa che i conti li fa in centesimi. Tanto i numeri grandi non lo spaventano mica!
La morale di tutto questo? La teoria è una bella cosa, ma la pratica non sempre è d’accordo con essa. Quando si parla di un numero, bisogna sempre capire a cosa si riferisce esattamente, prima di snocciolare le sue proprietà!
Aggiornamento: (17:25) come fattomi notare nei commenti, la velocità della luce nel vuoto è esattamente 299792458 metri al secondo, per l’ottima ragione che il metro è definito proprio per mezzo della velocità della luce nel vuoto. Prendete allora come esempio il peso di un protone in termini di masse atomiche. In genere viene considerato pari a 1; il valore più accurato a oggi è 1,007 276 466 88, ma non è che quello sia il valore esatto!

Ultimo aggiornamento: 2008-09-01 10:31

Logaritmi cantati

Al giorno d’oggi i logaritmi sono uno di quegli enti matematici che sembrano nati apposta per spaventare gli studenti, che si chiedono a che diavolo servano quei numeri astrusi. Dire che doverbbero essere ancora felici che una qualunque calcolatrice tascabile da dieci euro ti permette di trovare il logaritmo di un numero schiacciando un tasto, senza dover compulsare le tavole logaritmiche (io ne avevo una: non era così difficile usarla, ma assicuro che era una palla). In effetti i logaritmi, come i regoli calcolatori, erano importanti quando non si avevano a disposizione calcolatrici e computer, ed era necessario fare dei conti complicati: se ci si accontentava di un risultato approssimato lo si poteva ottenere piuttosto facilmente, al costo di leggere un po’ di numeri sulle tavole.
Prima o poi dovrò scrivere qualcosa sui logaritmi: per il momento, se proprio non ne sapete nulla, tenete conto che le formule di base sono queste:
log(a*b) = log(a)+log(b)
log(ab) = b*log(a)
In pratica il logaritmo “abbassa di complessità” le operazioni, trasformando il prodotto in una somma e l’elevazione a potenza in un prodotto. Per calcolare ad esempio 3259*3425, posso insomma prendere i logaritmi dei due numeri, sommarli, e cercare l’antilogaritmo della somma per ottenere (un’approssimazione del) risultato.
[intervalli musicali e rapporti relativi] Storicamente i logaritmi servivano per rendere un po’ più semplici i contazzi enormi che soprattutto gli astronomi dovevano fare per calcolare le orbite degli astri. Però potrebbero essere usati anche per fare conti a mente… se non fosse per il fatto che imparare a mente i logaritmi dei principali numeri può essere piuttosto lungo, e se uno deve avere dietro le tavole dei logaritmi non gli passa più. C’è però un trucchetto che ci facilita la vita, usando… la musica! Sappiamo tutti infatti che 210 (1024) è più o meno uguale a 103 (1000), il che significa che 21/12 è più o meno uguale a 101/40. Ma 21/12 è esattamente il rapporto di frequenza tra due semitoni nel temperamento moderno! Questo significa che per trovare il logaritmo in base dieci di un numero x, basta vedere x come un rapporto, oppure il prodotto di vari rapporti; calcolare a quanti semitoni corrispondono tali rapporti; se ce n’è più di uno, sommarli; e dividere infine il risultato per 40. Viceversa, per l’antilogaritmo in base 10 di y (10y) si moltiplica y per 40, si guarda a quanti semitoni corrisponde, e da lì si ottiene il rapporto voluto. Per quanto possibile, conviene usare i rapporti che “suonano meglio” nel vero senso della parola: ottava (rapporto 2, pari a 12 semitoni), quinta (3/2, pari a 7 semitoni) e quarta (4/3, 5 semitoni).
Un esempio vale sicuramente più di mille parole: iniziamo a vedere come calcolare il logaritmo di 3. Scriviamo 3 come 2*(3/2), quindi 12+7=19 semitoni; dividendo per 40 (prima per 10 e poi due volte per 2) otteniamo 0,475 contro il valore corretto 0,47712 circa. Se volessimo calcolare il numero di risultati possibile al totocalcio, cioè 313, avremo 13*19 semitoni, cioè 247 semitoni totali. (Qui c’è un altro trucchettino matematico: 13*19 = (16*16)-(3*3), e chi ama fare conti a mente sa a memoria che 16 al quadrato è 256). Di questi semitoni, i primi 240 = 40*6 danno un milione, che è da moltiplicare per il rapporto corrispondente a 7 semitoni, cioè una quinta, cioè 3/2. Il valore approssimato è pertanto un milione e mezzo, contro il valore esatto di 1594323. Un 6% circa di errore, risultato non disprezzabile.
L’unico intero da 1 a 10 difficile da approssimare con gli intervalli musicali è 7, per cui si può prendere circa 34 semitoni, come si può vedere dalla tabella riportata nel sito da cui ho scopiazzat… ehm, mi sono ispirato: una lezione (PDF) di Sanjoy Mahajan per il suo corso al MIT denominato Street-fighting mathematics. La cosa non dovrebbe stupire chi ha studiato musica: in effetti i primi armonici del Do1, cioè i multipli interi della frequenza di base, sono Do2, Sol2, Do3, Mi3, Sol3, una nota stonata (il settimo armonico), Do4, Re4, Mi4. Torna tutto, insomma!
Occhei, probabilmente l’uso pratico di queste tabelline di conversione è un po’ improbabile, però sono carine, no?

Ultimo aggiornamento: 2008-08-11 18:46

0,999999… ≠ 1

(vi ricordate che tra nemmeno dieci giorni c’è il Carnevale della Matematica? siete già andati da Chartitalia a indicargli i vostri contributi?)
Se non ve ne siete dimenticati, avevo promesso di dimostrare che 0,999999… non è uguale a 1. Il compito si direbbe improbo: abbiamo visto che i reali sono “tutta la retta dei numeri”, nel senso che con i tagli di Dedekind siamo riusciti ad associare un numero a ogni punto della retta. Si direbbe insomma che, visto che la distanza da 1 dei numeri della successione 0,9, 0,99, 0,999 … si riduce sempre di più ed è più piccola di un qualunque numero positivo, non c’è più spazio a disposizione per trovare un altro numero limite – un altro punto sulla retta – diverso da 1. E invece no! O almeno, “non necessariamente”. Quando in matematica si dice che due più due fa sempre quattro, ci si dimentica sempre di aggiungere “con le usuali definizioni di due, quattro e più”; se consideriamo i resti della divisione per tre (il gruppo Z3, per i pignoli) 2+2 in effetti fa 1 :-) Questo capita soprattutto quando le definizioni sono talmente abituali da essere prese per implicite: ed è per questo che nella puntata precedente ho scritto esplicitamente alcune cose di cui in genere non si sente parlare, tipo la proprietà di Archimede (che avevo chiamato Principio, ma forse è meglio passare al termine corretto).
Infinitesimi
Facciamo un passo (storico) indietro e prendiamo qualcosa che magari è rimasto in testa a chi ha fatto lo scientifico: gli infinitesimi. Quando Leibniz e Newton idearono indipendentemente il calcolo infinitesimale dalle due parti della Manica, tirarono entrambi fuori queste simpatiche quantità che erano diverse da zero fintantoché ci fosse necessità di dividere per esse, ma una volta fatte fuori dai denominatori diventavano immediatamente nulle; come del resto il loro quadrato era zero senza sé e senza ma. Quantità davvero curiose, se ci si pensa un attimo; tanto che il vescovo e filosofo George Berkeley – sì, quello che dà il nome all’università californiana – si prese il gusto di irridere chi operava con le flussioni, dicendo «E cosa sono queste flussioni? le velocità di incrementi evanescenti? Non sono né quantità finite, né quantità infinitamente piccole, ma nemmeno un nulla. Non potremmo chiamarle fantasmi di quantità defunte?» I matematici alzavano le spalle e dicevano che saranno anche state fantasmi di quantità defunte, ma facevano tornare i conti, e questo bastava loro. Ma sotto sotto sapevano che Berkeley aveva ragione, ed erano un po’ a disagio con gli infinitesimi. Così, quando a fine Ottocento Karl Weierstrass tirò fuori tutta quell’astrusa definizione di limite con gli epsilon e i delta, furono in molti a tirare un sospiro di sollievo e buttare via gli infinitesimi, pensando “ora non ci sono problemi”. Al limite, il problema restava a chi doveva ricordarsi a memoria la definizione e non scambiare gli epsilon e i delta… ma quelle sono quisquilie.
Tutto andò avanti senza troppi scossoni fino al 1961, quando un matematico di nome Abraham Robinson decise di vedere se poi in fin dei conti gli infinitesimi non potessero avere cittadinanza a pieno titolo tra i numeri. In fin dei conti se abbiamo accettato robaccia tipo i numei immaginari e i quaternioni, non si potrebbe forse trovare una via d’uscita? E in effeti una via d’uscita c’era, ed era data nientemeno che da un teorema di Kurt Gödel. Attenzione: non è un caso che abbia scritto “un” teorema. Non si tratta qua del classico teorema di indecidibilità, quello di cui tutti ne parlano e nessuno sa mai cosa dica esattamente, ma del teorema di completezza, che dice “un insieme di proposizioni è coerente se e solo se esso ha un modello, cioè se e solo se esiste un universo in cui esse sono tutte vere”. Ammetto che il teorema, scritto in questo modo, è ben poco comprensibile, anche perché non si sa bene che cosa sia un universo né un modello; diciamo che un universo è un insieme di enti e di operazioni, e un modello è un modo di vedere l’universo in pratica. No, non è così complicato. Ad esempio, un universo sono i numeri reali, con le operazioni di somma e prodotto e la relazione “<“; e un modello per i numeri reali è la nostra simpatica retta dei numeri che abbiamo visto l’altra volta.
Numeri iperreali
Esiste un corollario del teorema di completezza, chiamato teorema di compattezza, ci dice che se abbiamo un universo “standard” e un insieme di proposizioni tale che qualunque loro sottoinsieme finito sia vero, allora possiamo costruire un altro universo (“non standard”) dove tutte le proposizioni sono vere. Vi siete ancora persi? Eccovi un caso pratico. Prendiamo tutte le proposizioni del tipo
[1] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/1
[2] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/2
[3] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/3

[n] ε è un numero maggiore di 0 e minore di 1/n

Se prendiamo un numero qualunque di queste proposizioni, possiamo trovare un ε che le renda vere tutte assieme; se prendiamo ad esempio le prime 20, la 30 e la 40, basta scegliere come ε il valore 1/42. Allora per il teorema di compattezza deve esistere un modello dove tutte queste proposizioni sono vere; in questo modello esisterà un ε maggiore di 0 ma minore di 1/n per ogni n intero. [qualche numero ipernaturale] Questo numero ε è chiamato infinitesimo, mentre l’insieme dei numeri che troviamo è quello dei numeri iperreali (da non confondersi coi numeri surreali… dovreste saperlo che la fantasia dei matematici è sfrenata, quando tocca loro dare il nome a qualcosa!) Il bello di questo modello non standard dei reali è che funziona praticamente come i reali “reali”. Il numero iperreale 1 è esattamente uguale, per quanto ci riguarda, al numero reale 1; se s e p sono la somma e il prodotto di due numeri reali a e b, la somma e il prodotto degli iperreali corrispondenti ad a e b saranno i corrispondenti di s e p; e se a<b, questo vale anche per i corrispondenti. Però c’è (ovviamente) qualcosa di diverso: ad esempio, i numeri 1 e 1-ε si dicono infinitamente vicini, proprio perché la loro differenza è un infinitesimo. È come se prendessimo la nostra retta dei numeri, una lente di ingrandimento, e scoprissimo che a ogni punto della retta (un numero reale) corrisponde un’infinità di numeri, tutti infinitamente vicini tra loro. E quindi significa che la successione dell’altra volta, quella scritta (1 – 1, 1 – 1/10, 1 – 1/100, 1 – 1/1000, … ), non arriva a 1 come credevamo, ma si ferma a 1-ε. Un numero infinitamente vicino a 1, ma non 1.
C’è anche un altro approccio più o meno simile per arrivare ai numeri iperreali; questo approccio parte dai numeri ipernaturali, che sono numeri “quasi” naturali, nel senso che dato un numero ipernaturale μ c’è sempre un numero precedente μ-1 e un numero seguiente μ+1. L’unica differenza è che gli ipernaturali che non sono numeri positivi standard sono tutti infiniti, e quindi non proprio “naturali”. I nostri infinitesimi sono gli inversi dei numeri naturali.
Dov’è il trucco
Dov’è il trucco? Beh, se mi avete seguito dovreste averlo capito: nel modello non-standard dei numeri reali perdiamo la proprietà di Archimede. Per quanto noi ci affanniamo a prendere dei multipli (finiti) di ε, non potremmo mai raggiungere il numero 1, o se per quello un qualunque numero reale positivo: rimarremo sempre ad avere numeri infinitamente vicini a zero, un po’ come se corressimo affannosamente ma rimanessimo sempre inchiodati al nostro posto. [un angolo infinitesimo]È una bella perdita, indubbiamente. Ma non venitemi a dire che questi numeri iperreali sono assolutamente fittizi e non ce li possiamo trovare se non in esempi assolutamente astratti, perché vi zittisco subito con due casi semplicissimi.
Il primo è l’angolo formato da una circonferenza e dalla sua tangente. Quanti gradi vale? non può essere di zero gradi, perché un angolo zero è fatto da due semirette sovrapposte mentre la tangente e la circonferenza si allontanano; ma non può nemmeno essere un numero reale maggiore di zero, perché in quel caso la retta sarebbe secante e non tangente alla circonferenza (dall’altro lato, nel caso ve lo chiedeste). Quindi è piuttosto naturale affermare che l’angolo è un infinitesimo. In effetti i più matematici tra voi si saranno ricordati che la tangente a una curva è il modo geometrico di definire la derivata in un punto; l’analisi non standard è appunto nata perché Robinson voleva vedere se si potevano formalizzare le intuizioni di Leibniz sugli infinitesimi che si comportano “come i numeri veri”.
Il secondo caso in cui gli infinitesimi compaiono naturalmente riguarda gli ordini di grandezza delle funzioni. Soprattutto gli informatici sanno bene che se un algoritmo richiede 3n2+5n+7 operazioni nel caso si abbiano n valori da cui partire, al crescere di n si possono lasciare perdere i termini meno importanti e affermare che il suo costo è di O(n2) operazioni. Un algoritmo di costo O(n2) sarà nel caso generale più “economico” di uno di costo O(n3), e uno di costo O(nk) sarà sicuramente meglio di uno che esplode esponenzialmente, cioè di costo O(en), per quanto grande sia k. Fin qua tutto bene. Prendiamo ora un problema molto comune, quello di mettere in ordine di grandezza crescente una serie di n valori: l’algoritmo più veloce possibile ha un costo che è O(n log(n)) operazioni. Se volessimo dire qual è l’esponente di n corrispondente, ci troveremmo nei pasticci. È sicuramente più di 1, perché log(n) cresce all’infinito. Ma è sicuramente meno di 1+ε per ogni ε. Che numero è, allora? È chiaro: uno più un infinitesimo!
Ulteriori informazioni
Complimenti a voi se siete riusciti ad arrivare qui in fondo senza scappare: anche se ho cercato per quanto possibile di evitare qualsiasi dimostrazione, mi rendo conto che l’argomento è un po’ ostico, senza poterci lavorare su “in diretta”. Chi si fosse però incuriosito e volesse sapere qualcosa di più sui numeri iperreali e l’analisi non standard può leggersi un paio di documenti scritti in italiano: I numeri infinitesimi e l’analisi non standard, del mio vecchio compagno di università Mauro Di Nasso, e Introduzione all’Analisi Non-Standard, di Riccardo Dossena.

Ultimo aggiornamento: 2008-08-05 14:49