Non è (solo) un problema di soldi

Massimo Mantellini (se non ci seguiamo tra noi boomer…) scrive un pippone sulla parcellizzazione dei pagamenti per accedere ai contenuti, partendo da quelli televisivi per giungere al modello esemplificato da Substack: tutti che ti chiedono du’ spicci (a volte ben di più) per leggere quello che loro scrivono, con il risultato che per leggere tutto uno dovrebbbe spendere una cifra ben maggiore di quanto si facesse quando noi eravamo giovani.

La cosa è assolutamente vera, come è vero che Substack spinge in tutti i modo gli autori per mettere i propri testi a pagamento: d’altra parte il suo modello di business è prendersi una quota dei loro ricavi. Non concordo però del tutto con la sua analisi. La prima cosa che io vedo è che quando io e Massimo eravamo giovani era molto più semplice trovare un aggregatore di contenuti di tipo diverso che si pagava una sola volta – i giornali e i settimanali di approfondimento – ma era anche vero che avevamo accesso a molto meno materiale. Per dire, se anche l’equivalente di quello che leggiamo ora in rete in inglese fosse stato presente in pubblicazioni cartacee, non avevamo in pratica la possibilità di leggerlo e quindi per noi era come se non esistesse.

Il secondo punto è più articolato. È di nuovo vero che troppa gente pensa solo a monetizzare quello che produce – ma di nuovo non è una cosa così strana: i vecchietti come me dovrebbero ricordarsi del software shareware – ma il problema è più a monte. Partiamo da una frase di Massimo, che ripensa al passato e si chiede: «E il medico che chiede 2 euro al mese per fare la stessa divulgazione scientifica che prima faceva su FB?» (i quotidiani ormai fanno schifo anche in edizione cartacea, e degli scoop della soubrette non me ne può importare di meno). Ecco, parliamone. Non tanto del medico, che tanto non leggevo nemmeno prima, ma più in generale. I casi sono due. Se il medico deve impiegare molto tempo di ricerca e di assemblaggio per preparare i suoi post, il vero problema è che sbagliava prima a lasciarli gratuiti. Se invece è come me, e quindi ci impiega relativamente poco tempo a cercare e assemblare quello che scrive, la cosa migliore che il lettore può fare è evitare di pagare per leggere. Certo, se scrivo di matematica o di IA devo comunque capire quello che ho letto e cercare di rimetterlo in un modo comprensibile almeno a qualcuno, mentre post come questo sono più che altro chiacchiere e il tempo che perdo è quasi solo quello che ci metto a scriverlo. Ma onestamente non vedo perché qualcuno dovrebbe pagarmi: ricasco nella categoria di Massimo della gratuità «non per contingenza o per vergogna ma per scelta di condivisione fra pari». Mi accontento dei miei ventun lettori, e vivo felice.

Quello che invece contesto è la necessità di «mettere in piedi un’economia di mille mattoncini da 8 euro al mese ciascuno», ma nemmeno di 30 centesimi ciascuno, il che sarebbe forse economicamente sostenibile. Non è l’avere «Molte idee, molta bellezza, moltissima poesia celate dietro ad un cancello presidiato che nessuno vorrà attraversare»: è l’avere troppe idee, bellezza, poesia che tanto non riuscriemmo a guardare anche se i cancelli fossero aperti. Insomma, dobbiamo prima riuscire noi a capire quanto possiamo “consumare” e solo dopo stabilire quanto possiamo pagare. Il problema non è insomma l’economia dei tanti piccoli pagamenti che messi assieme fanno una cifra impossibile, quanto l’economia delle cose che abbiamo umanamente il tempo di riuscire ad apprezzare. Se riuscissimo a risolvere questo problema, la “bolla Substack” si sgonfierebbe subito.

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