Lo scorso febbraio, Telecom ha avviato una sperimentazione di Smart Working: chi lavora a Milano, Torino, Bologna, Roma e Palermo poteva scegliere di lavorare a casa ogni tanto (per noi ad esempio una volta la settimana). La sperimentazione nasce sotto il periodo di Patuano: una volta defenestratolo per passare a Cattaneo si sapeva che le cose sarebbero cambiate, perché il progetto faceva parte del piano di riorganizzazione delle sedi che era inviso al neoAD. Già a fine gennaio ci viene detto praticamente senza preavviso “no, non farete una giornata di smart working ogni settimana, ma due al mese”, cosa che complicava parecchio la vita ma tant’è. Oggi poi appare sulla Intranet una notizia dal titolo “SMART WORKING: prossimi passi” e occhiello “Il punto sul progetto Smart Working, ad un anno dall’inizio della sperimentazione. Ora parte la fase di analisi.”, dove si spiega come lo smart working sia nato dopo un confronto con i clienti (?), si segnala il minore inquinamento, si comunica che ora i responsabili dovranno compilare i questionari per vedere come è stato l’impatto, facendo poi un’«analisi congiunta dei risultati della survey con i dati raccolti sul campo»… e quindi «A partire dal 1 marzo 2017, la sperimentazione si interromperà per tutti i partecipanti, in tutte le aziende del Gruppo.»
Attenzione. L’azienda ha tutto il diritto a dire che la sperimentazione era una sperimentazione, non è andata bene, e quindi termina. Ci mancherebbe altro. Ha anche tutto il diritto a dire che la sperimentazione l’ha fatta ma poi ha cambiato idea e quindi ora lo fa terminare. Insomma, nessuno vede lo smart working come un diritto; né si pensa a priori che sia stato un vantaggio o no per l’azienda, che è il punto fondamentale per capire se per loro ha senso o no farlo. Però l’azienda dovrebbe avere il coraggio di dirlo esplicitamente: oppure dovrebbe spiegare perché mai non si possano analizzare i risultati mentre la sperimentazione continua, neanche se restando a lavorare a casa inquinassimo le prove. Ecco: quello che manca qui è il coraggio.
Ultimo aggiornamento: 2017-02-21 12:32
Che poi non si capisce se lo “Smart” è solo il lavoro da casa oppure è solo un nome infelice.
Mia sorella lavora alla Fastweb e in caso di necessità (aka figli che non si possono mollare ai nonni) può liberamente dire che lavorerà da casa. Sono troppo Smart da loro?
@Enrico: è tutto un casino (normativo ma non solo). Partendo dal principio che ci sono lavori che non possono essere fatti da casa, e che lavorare sempre da casa (aka telelavoro) diventa alienante, il lavorare “smart” dovrebbe appunto significare che il lavoratore è in grado di fare il proprio lavoro da casa e portare i risultati equivalenti a quanto avrebbe fatto in ufficio. Ma questo significa responsabilizzare il lavoratore e chiedere fiducia all’azienda (non in bianco perché ci sono i risultati alla fine). Come hanno scritto altri nel thread e su facebook, è una mentalità che non abbiamo.
lo smart working adesso è l’avanguardia. :)
Qui invece, come già scrissi nell’altro tuo articolo, continua la sperimentazione da una volta a settimana ma solo per alcune unità, che sono poi tutte senza alcun rapporto colla clientela.
Diventerà materia di scambio nelle trattative del contratto
ma presumo che il sindacato se ne fregherà (almeno se fossi io a trattare direi “a noi lo smart work non interessa, quindi non entra in trattativa”)