Musica bidimensionale

Domenica ho cantato – con un centinaio di altri coristi e una ventina di orchestrali – il Requiem di Mozart K626. Considerando che la prima prova con l’orchestra l’avevamo fatta venerdì, ed era persino aperta al pubblico (siamo pazzi) bisogna dire che siamo stati davvero bravi, ma non è di quello che volevo parlare.
Mentre cantavo, barcamenandomi tra il controllare il direttore e il leggere la parte che come sempre non mi ricordavo a memoria, mi sono accorto che c’è una differenza enorme tra quando ascolto un brano di musica classica (non solo da un disco, ma anche dal vivo) e quando lo canto. È una sensazione difficile da spiegare a parole: in pratica, mentre l’ascolto per così dire passivo è monodimensionale (la musica fluisce nel tempo) quando canto l’ascolto diventa bidimensionale: sento le varie parti molto distintamente pur nel loro amalgama, come se io mi trovassi all’interno di un puzzle, o forse di una costruzione fatta con i Lego, e attaccassi insieme tutti i vari pezzi.
È una cosa che capita solo a me, o qualcuno ha provato un’esperienza simile?

Ultimo aggiornamento: 2014-01-21 13:45

8 pensieri su “Musica bidimensionale

  1. mestesso

    Io non canto, non sono adatto, ma suono(-avo) e posso dire che sentire un brano e suonare lo stesso motivo sono due cose distinte, con due sensazioni distinte. La seconda è più profonda della prima, ma anche più definita. Quando si suona e si suona bene l’autore inizialmente ti prende per mano, poi senti che puoi camminare da solo e poi ti metti a correre sul sentiero tracciato (certo suonare in un ensemble ha un certo effetto puzzle insito, ma fino ad un certo punto ma io vengo da una cultura jazzistica). Quando lo sento la mia mente è libera di spaziare ovunque e mi porta lontano.
    Posso dire che ascoltare un brano è più orizzontale, mentre suonarlo è più verticale, sensorialmente parlando.

  2. Francesco P.

    Sono (ero?) un pianista, e la differenza tra sentire un pezzo per pianoforte e suonarlo è effettivamente molto grande. Tra le differenze riconosco anche la sensazione che tu descrivi, ovvero la molto maggiore facilità con cui si distinguono le varie voci senza che questo pregiudichi l’ascolto “globale” del brano. Una sensazione che si avvicina a questa (anche se non così completa come durante una esecuzione personale) si può ottenere, nella mia esperienza, in altri due modi:
    1) ascoltando molte incisioni diverse dello stesso brano (il che permette di identificare più facilmente, ad ogni nuovo ascolto, certi aspetti che alcuni esecutori enfatizzano più di altri e che una volta acquisiti, si possono riconoscere anche negli ascolti successivi)
    2) guardando una visualizzazione (fatta bene!) sovrapposta alla musica (sul canale Youtube di Stephen Malinovski “smalin” ce ne sono di meravigliose).

  3. Roberto

    Caro .mau., per un certo periodo (che si è ahimé concluso quasi vent’anni fa), ho cantato anche io (il Requiem di Cherubini e il Magnificat di Bach, per esempio) e capisco cosa provi. Però non sono sicuro che non dipenda anche dalla maggiore conoscenza del brano. A me capita con brani (come il requiem di Mozart o la Passione secondo matteo di Bach) che ho ascoltato decine di volte. Certo, la partecipazione e il coinvolgimento che ti capitano cantando sono uniche. Ciao. r

  4. .mau.

    @Roberto: beh, io conosco la mia parte e a malapena dei pezzi delle altre parti vocali, ma per esempio quelle orchestrali non le conoscevo affatto…

  5. Paolo

    Anch’io canto, da circa tre anni, in un coro (più piccolo del tuo, siamo circa 25), e anche nel nostro repertorio c’è il Requiem di Mozart.
    Anch’io ho sempre notato una profonda differenza tra la percezione della musica quando la sia ascolta “passivamente” e quanto si canta all’interno in un coro, magari anche con la presenza dell’orchestra. Non avevo mai pensato, però, di descrivere questa differenza usando la metafora 1D/2D, come fai tu: devo dire però che la tua descrizione è molto appropriata e rende bene l’idea.
    Invece, una sensazione particolare da me spesso avvertita (che ha che fare con la tua osservazione ma forse un po’ se ne discosta) è che quando canto nel coro percepisco le diverse voci in modo per così dire “squilibrato”: il mio cervello è costretto a dare più ascolto a più quella del mio reparto (bassi) rispetto alle altre tre. Riascoltando poi la registrazione dell’esecuzione, mi sembra spesso di ascoltare una cosa molto diversa, perché questa volta il cervello dà la stessa importanza a tutte le sezioni, appiattendo la “seconda dimensione”.

  6. IlTester

    Magnifico il Requiem. Veramente magnifico. Le ultime composizioni di Mozart (tra le quali i quartetti prussiani, le ultime tre sinfonie, l’ultimo quintetto per archi, il Flauto Magico, il Requiem) sono veramente una sfilza impressionante di capolavori (senza nulla togliere a tutta la produzione precedente).
    Dopo questa considerazione ovvia, aggiungo i m2c :-)
    Suonare/cantare e ascoltare, come giustamente dite, comportano due sensazioni profondamente diverse. Dal mio misero punto di vista, però, ho una visione più equilibrata nell’ascoltare che nell’eseguire (provo a spiegare in che senso). È indubbiamente vero che da “dentro” (l’orchestra, il coro, il quartetto o qualsiasi altro ensemble) si ha un punto di vista totalmente diverso. Anche tralasciando le magnifiche sensazioni che si provano (ad esempio, certi passi nei quartetti di Mozart sono così toccanti che fanno venire la pelle d’oca suonando), si tocca con mano la propria parte e si percepisce da dentro il funzionamento dell’armonia e del contrappunto nel pezzo. Però è anche vero che, in un certo senso, si è condizionati dal punto di vista che si occupa: è necessario infatti dedicare particolare attenzione alla propria parte e alle parti più importanti con le quali ci si relaziona (ad esempio ci sono momenti in cui bisogna magari concentrarsi molto sul violino perché ha un solo da accompagnare, oppure c’è qualche incastro particolare, o con il basso perché magari in quel passo è lui a proporre, etc.) e si perde di vista l’insieme e il peso specifico delle singole parti nel risultato finale. Per cui io personalmente colgo il massimo quando ascolto, a patto di conoscere sufficientemente bene la musica (altrimenti si perde buona parte della “bidimensionalità”, o anche della “tridimensionalità” se vogliamo aggiungere l’espressività timbrico/dinamica).
    Bella la metafora mono-bidimensionale. Mi riporta alla mente Flatland. Chissà come è la musica che ascoltano i cerchi o i poligoni a molti lati :-)

  7. enrico d.

    Personalmente sono totalmente a-muso; nel senso che non ascolto praticamente mai musica (di nessun genere); e quando la sento, mi sembra di non capirla. Mi è difficile anche battere il tempo… Ma c’è stato un periodo in cui non è stato così. Quando ero fidanzato, con quella che è poi divenuta mia moglie, la accompagnavo alle prove del suo coro. Un prestigioso ensemble bolognese, specializzato in musica sacra, dal gregoriano a Bach, ai più famosi oratori… Ascoltando le prove, prima a voci separate, poi progressivamente amalgamate,…prima solo con accompagnamento al pianoforte, poi con archi e fiati…in questo modo riuscivo a capire molto meglio, e apprezzare armonie, richiami, assonanze. Lo stesso Alleluja di Haendel, che molti considererebbero “facile”, l’ho capito solo dopo un paio di mesi di prove.

  8. Barbara

    Anch’io sono a-musa nel senso di enrico d., e un gran numero di amici e morosi musicofili non ha avuto alcun effetto in materia. Mi pare la stessa differenza fra studiare una dimostrazione su un libro di testo e farsela da sé, possibilmente insieme a un gruppo di amici. Nella stessa analogia, creare della matematica nuova corrisponde a comporre un pezzo musicale.

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