Leggo da Mantellini che Spotify ha cambiato le sue “regole del gioco”, e non permette più neppure in Italia uno streaming illimitato di musica senza abbonarsi al loro servizio e accettando di ascoltare di quando in quando pubblicità. Non usando Spotify, sono andato a leggere le condizioni d’uso e ho visto che in effetti dopo i primi sei mesi d’uso ora c’è un limite di 10 ore al mese.
Tralasciamo che c’è chi continua a creare account farlocchi due volte l’anno e guardiamo la luna anziché il dito. Il modello “ottieni gratuitamente un servizio se accetti pubblicità” è fallito ancora una volta. Immagino che i ricavi della pubblicità, soprattutto in un servizio digitale dove si può misurare facilmente il ritorno, siano troppo bassi; d’altra parte la crisi dei media deriva anche dall’avere una contrazione del mercato pubblicitario cartaceo che non è per nulla bilanciata da un corrispondente aumento di quello digitale. In pratica non so se in rete si faccia meno pubblicità: sicuramente viene pagata molto meno.
Aggiungiamo che la pubblicità in rete diventa sempre più pressante, naturalmente “per il nostro bene”. Non so se abbiate mai letto quanto Douglas Adams scrisse al riguardo quindici anni fa; se fosse ancora vivo, credo rimpiangerebbe amaramente quelle parole. Addirittura qualche giorno fa lo IAB (sigla che un vecchietto della rete come me associava all’Internet Activities Board, mentre invece ora è l’Internet Advertising Bureau…) ha acquistato spazio pubblicitario (cartaceo…) per lamentarsi della decisione di Mozilla di bloccare di default i cookie di terze parti (quelli usati dalle aziende che fanno pubblicità), lasciando al singolo utente la possibilità di fare opt-in e accettarli. Sappiamo tutti che l’opt-in non funziona (dal punto di vista di chi ti vende; dal punto di vista dell’utente è perfetto), e questa ne è ulteriore prova.
Detto tutto questo, io però mi blocco. Secondo voi, qual è un modello per proporre un servizio nel mondo digitale? Insomma, esiste o no una pars construens?
Ultimo aggiornamento: 2013-08-14 11:24
Ma che c’è di così assurdo nel pagare per ottenere un servizio di qualità? Tanto più che è un servizio che ha costi “non virtualizzabili”, quali quelli di pagare per le licenze di ogni singolo brano ascoltato/disponibile.
@giuseppe: come ho scritto, non so come funzioni Spotify. Ma se – come mi era parso di capire – lui ti propone canzoni e tu ascolti o salti, non mi pare come logica tanto diverso dall’ascoltare una stazione musicale alla radio.
credo (temo) sia un problema insolubile. Specialmente perché…non sta fermo.
oggi un sessantenne come me utilizza la rete in modo molto diverso da un 45eene; un trentenne è lontano anni luce da un ventenne… Personalmente vivo la pubblicità come un gioco del tipo “cerca la x nel minor tempo possibile”. Non credo di aver mai letto un annuncio. Qualsiasi regolamentazione necessita di una situazione stabile, almeno per qualche decina d’anni. Lo stesso concetto di diritto d’autore, con le conseguenze sui download, era impensabile prima di Gutemberg; ma anche con i sistemi di stampa più moderni, c’è voluto qualche secolo. Ora forse non ha più senso; o ha un senso del tutto nuovo.
Ma la vera novità è che mentre il modo di leggere e acquistare un libro è stato lo stesso per secoli; oggi non è più così.
Grazie per avermi ricordato e indotto a rileggere l’articolo di Douglas Adams (che mi manca proprio!)
@Mau: no, spotify non è una radio. O meglio, ha anche una funzione “radio”, ma puoi pure cercare e sentire un singolo brano a tua scelta (disponibile, ovviamente); passarne l’URL a un tuo amico per farglielo ascoltare; e così via.
Il modello non può che essere ovviamente socialista e pubblico. :)
Il problema è che non siamo abituati a pagare servizi digitali e di conseguenza chi crea / fornisce questi servizi.