Ho letto (sul Post, non nella versione originale su Libero) questo articolo di Filippo Facci. Nulla di strano che la redazione dia dei caldi suggerimenti sui temi da trattare. Stiamo comunque parlando di editoriali, cioè di fuffa: se preferite, di come chi scrive decide di parlare a proposito di un tema. Non mi stupisco nemmeno degli argomenti suggeriti dalla redazione: ogni quotidiano ha la sua linea editoriale, e quella di Libero è molto nazionalpopolare. Diciamo che sono molto felice di non sapere assolutamente a cosa ci si riferisca con «La Melandri nel container» e «Brunetta contro Busi per le mutande della Ravetto», e anzi non sapere neppure chi sia la signora o signorina Ravetto. E no, non venitemelo a spiegare, grazie.
Però mi resta il dubbio, tra le notizie “commentabili” proposte dal Facci, dell’utilità di parlare della «benzina mai così cara» e di «un orso ucciso a fucilate in Molise»; una notizia ricorrente tutti gli anni come le tasse, e una notizia che ci fa al più ricordare che le montagne del centro-sud si stanno ripopolando di fauna. Davvero, però, parlare di Pd e gnocca o parlare del prezzo della benzina per me pari è. Faccio insomma mio a più alto livello il dubbio di Facci: «Bisogna privilegiare ciò che il pubblico deve leggere o ciò che il pubblico vuole leggere? Quanta informazione e quanto infotainment?». Ecco. Se ci fosse una vera separazione, con due sottositi per un giornale online e la colonna infame e i boxini morbosi che si trovano tutti su un sottosito (la home page principale può restare così com’è, ma i due sottositi avrebbero ciascuno la propria home), io sarei molto contento. Almeno a seconda del momento potrei scegliere l’uno o l’altro sottosito. Voi invece?
Ultimo aggiornamento: 2013-07-10 10:14
Io ho deciso da tempo di non leggere più i giornali, online o cartacei.
Ho anche fatto a meno della televisione. A prescindere dalla qualità del giornalismo italiano, mi sono convinto che il flusso continuo di notizie sia nocivo e non necessario, una vera e propria dieta di junk food per la mente.
Leggo più regolarmente alcune cose del Post, e ogni tanto un periodico che approfondisca gli argomenti.
Questo perché credo che l’informazione abbia bisogno di decantare, filtrare ed essere elaborata, altrimenti è solo chiacchiericcio, anzi, chiacchiere e tessera dell’Ordine.
Più in generale, mi sembra che l’argomento sostenuto dai giornalisti, cioè che scrivono monnezza perché è ciò che il pubblico vuole leggere, non sia fondato; i giornali campano soprattutto con i soldi pubblici, ovvero le nostre tasse, e della pubblicità, che si fa vendendo lettori, cioè noi, agli inserzionisti. Di spazio per filtrare le mutande della sig.ra Ravetto e le tette di Belen c’è n’è, basta volerlo.
“Bisogna privilegiare ciò che il pubblico deve leggere o ciò che il pubblico vuole leggere?”
Qualsiasi attività editoriale professionale si pone questa domanda, trova delle risposte e le controlla sul campo (quante volte vengo letto? E quante volte vendo?).
Chi non trova le risposte giuste tipicamente perisce (a meno di non essere parte di quei fogli per definizione corporativi come le pubblicazioni relative alla Confesercenti, Assoassicurazioni etc che si finanziano indipendentemente dal grado di soddisfazione dei lettori).
Ciò detto, se una pubblicazione esiste, significa che viene letta (da un numero sufficiente di persone affinché sia in vita).
Il proprio pubblico ce lo si crea, non lo si sfrutta. La pubblicazione di successo è quella che anticipa lievemente i desideri senza prevaricarli, quella che fa dire “interessante non lo sapevo” oppure “cavoli questa roba mi serve” oppure “la prossima volta mi so regolare e non mi fregano più” oppure “divertente” contestualizzata nel proprio tema di interesse.
Anche se non sembra, il tutto include anche la monnezza. Anche quella ha il suo mercato, e su internet potrei dire che la monnezza è il business #1.
L’informazione, anche quella “intelligente”, alla lunga genera noia, perché segue fatti ripetitivi. Le solite bustarelle, le solite truffe, i soliti stupri, i soliti editoriali nella loro tragicità sono dopo un certo punto, banali. La noia è il nemico #1 di qualsiasi attività editoriale. Anche se niente cambia, il giornale o la rivista deve cambiare (il modo di farlo) o morire.
Il mezzo è importante. Oggi tempo=denaro. Ovvero dimmi subito qualcosa-che-mi-interessi-o-crepa. L’informazione “intelligente” richiede tempo. Quindi si fa meno.
Volte meno monnezza? Cambiate le vostre abitudini, pretendete più tempo libero. L’editoria vi seguirà, piano piano (se siete in numero sufficiente).
Mettetevelo bene nella zucca: abbiamo l’informazione che ci meritiamo. Come dice un mio amico giornalista iscritto all’Ordine: “i giornalisti son tutti puttane”. Quello che lui non dice espressamente ma vi dico io brutalmente è che NOI siamo i magnaccia.
Come sempre, il problema (o uno dei problemi) risiede nel sistema di misura e di monitoraggio. Oggi pare che ciò che conti sia il numero di contatti; per cui il sistema si adegua a registrare il più alto numero di contatti possibile. E in base a questo dato (che come tutti i dati è forzabile e non è vangelo!) si stabilisce il prezzo dell’inserto pubblicitario, lo stipendio del giornalista, il “successo”.
Forse, cambiando il sistema di rilevazione… A livello televisivo, una volta, al posto dello share, esisteva l’indice di gradimento, che monitorava non solo il numero di ascoltatori, ma la loro qualità e la loro soddisfazione.
Trasmissioni come “Alto gradimento” di Arbore&Boncompagni, hanno avuto un grande successo e una importanza nella società e nella “cultura” , anche se i numeri in termini di ascolto erano scarsi. il fatto è che ad ascoltare, era una parte qualitativamente importante (vogliamo dire intelligente e colta?)che ha fatto da amplificatore. Se al tempo si fosse usato un metro di misura basato sul numero, la trasmissione sarebbe stata chiusa dopo poche puntate !
Evidentemente a qualcuno fa comodo così.