Nella sezione culturale del Corsera cartaceo odierno (niente link: insomma: posso solo fornirvene uno al Guardian o se preferite a Punto Informatico, ma il punto di questa mia notiziola si perte) c’è un articolo sull’accordo tra Google e la British Library per la digitalizzazione di 250000 libri antichi (dal 1700 al 1850); digitalizzazione i cui costi sono a carico di Google – e definiti “importanti” dal portavoce della Grande G.
L’articolo continua spiegando che questi libri «gli utenti potranno copiarli, scaricarli, condividerli, naturalmente “per scopi non commerciali”». Ecco. Quando ho visto quel “naturalmente” mi si stava per andare di traverso il caffè. Intendiamoci: Google ci mette i soldi e ha tutti i diritti di farci quello che vuole con il materiale digitalizzato, su questo non ci sono dubbi. Detto in altro modo, se chi ha scritto quell’articolo avesse omesso quell’avverbio non avrei avuto proprio nulla da dire. Ma perché mai dovrebbe essere naturale che del materiale possa essere usato solo non commercialmente? Ricordo che stiamo parlando di libri stampati tra 300 e 150 anni fa: l’unico uso commerciale che mi viene in mente è quello di fare ristampe anastatiche che comunque lascerebbero il tempo che trovano perché gli studiosi tanto userebbero il testo digitalizzato; lo stesso per eventuali compilazioni in DVD che potrebbero forse avere il valore aggiunto di un’indicizzazione intelligente (e costosa) ma comunque un mercato ristretto.
Forse però non è un caso che l’avverbio non sia affatto presente nell’articolo del Guardian ma solo su un italico quotidiano che termina (ma non è il solo a farlo …) i suoi articoli con un ©RIPRODUZIONE RISERVATA ma non si perita di riciclare – senza dirlo, le licenze d’uso non le si leggono mica – gli innaturali stupidi di Wikipedia che le informazioni le lasciano libere anche per usi commerciali…
Ultimo aggiornamento: 2011-06-21 09:35
In realtà, nonostante tutti i soldi che ci mette, non è nemmeno scontato che Google abbia “tutti i diritti”, perché non è detto che che possa rivendicare diritti sugli scan di opere di pubblico dominio. Si tratta comunque di una cosa piuttosto discussa e le risposte variano da giurisdizione a giurisdizione. Un punto di partenza può essere: http://en.wikipedia.org/wiki/Sweat_of_the_brow
@ncaranti: sul testo digitalizzato è difficile riuscire ad accampare diritti, ma sulla scansione, in quanto opera derivata, la situazione è diversa.
Che è proprio quello che si contesta, cioè che riprodurre in qualsiasi modo quel tipo di contenuti (dalla scansione con strumenti particolari alla fotografia con macchine ultratecnologiche e via dicendo) dia luogo ad un qualche nuovo diritto; motivo per cui su Commons travasano roba tipo http://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Google_Art_Project :p
(PS.: Dopo ogni commento, il sistema non memorizza le mie info né manda notifiche – non blocco cookie o altro, quindi ho pensato di segnalarlo qui).
A fagiolo: http://blog.wikimedia.org/2011/06/22/fighting-for-the-public-domain/ .
(Sull’altra segnalazione: commento così poco che va bene anche così :) )
Dico la mia banalità non avendo letto l’articolo sul Corriere, ma quello del Guardian. Secondo me Google non accampa nuovi diritti sui testi digitalizzati, ma sul lavoro svolto. Dice Google: noi ci mettiamo soldi, tecnici e tempo, ma tu utente finale non ci puoi speculare sopra. Esempio: stampo 100 DVD e li metto su eBay per venderli a chi non ha la banda larga e non può scaricare. Tempo fa ho fatto delle traduzioni di alcune pagine man di linux rilasciandole sotto GPL. Oppure traduzioni di interfacce. Lo faccio per collaborare, per condividere, a patto che poi le mie traduzioni e il mio tempo non vengano usati da altri per lucrare. PenZo.