Il paradosso di Berry

Uno, due, tre, quattro… mille… un milione… un miliardo… un fantastiliardo… Beh, che numero sia esattamente un fantastiliardo non è così certo, o perlomeno non saprei citare il numero esatto di Topolino in cui è stato definito formalmente. Sono capaci ad averlo fatto, sì. Però direi che siamo tutti d’accordo che ai numeri si può dare un nome, e che noi siamo abbastanza fortunati da poter dare un nome – in italiano, in inglese, in klingon o nella vostra lingua preferita – a ogni numero. No, ricominciamo da capo. Sicuramente possiamo dare un nome a ogni numero intero (o frazionario, o irrazionale algebrico). Dopo Cantor sappiamo infatti che i numeri reali sono “più infiniti” delle parole che abbiamo a disposizione; quindi se volessimo dare un nome a tutti i numeri reali, e non solo a pi greco o alla radice di due, siamo fregati in partenza: anzi, la percentuale di numeri a cui possiamo dare un nome è virtualmente nulla rispetto al totale. Ma questa è un’altra storia.
Limitiamo pertanto il nostro scopo e torniamo ai numeri interi, dove insomma si direbbe che siamo a posto. Qualunque numero finito uno scriva, lo possiamo leggere, sgolandoci al più con una sfilza di “miliardi di miliardi di miliardi”, o al limite risparmiando un po’ di voce sfruttando la norma CEE/CEEA/CE n.55 del 21/11/1994 che definisce che andando di mille in mille si hanno migliaia, milioni, miliardi, bilioni, biliardi, trilioni; poi si sono fermati, lasciando a Wikipedia l’onore di arrivare ai quadriliardi. Lo strano è che la norma CEE specifica le unità di misura tra le pieghe di una legge sul trasporto di merci pericolose: ma in effetti, anche solo sui numeri interi di cose strane ne abbiamo lo stesso!
Piccola digressione. Un’altra cosa che abbiamo imparato fin da bambini è che dato un numero possiamo sempre trovarne un altro dicendo “più uno!”, come si ricorderà chi giocava a dire il numero più grande. L’osservazione è meno stupida di quanto si pensi, come vedremo. Detto in altro modo, un numero lo si può chiamare in tanti modi: ad esempio, “cento” è anche “novantanove più uno”, oppure “dieci per dieci”, o ancora “il numero di quadratini del quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti hanno lunghezza rispettivamente sei e otto”. Quanti modi abbiamo a disposizione per definire un numero? Non lo so. Probabilmente infiniti, ma in realtà la cosa non è che ci importi più di tanto. Quello che importa è per ogni numero abbiamo (almeno) una rappresentazione “economica”, che cioè usa il numero minimo possibile di sillabe. A vedere gli esempi qui sopra non si capisce l’utilità di introdurre questi altri modi di chiamare un numero, ma ad esempio novecentonovantanovemila novecentonovantanove (venti sillabe) può essere espresso come “un milione meno uno” (otto sillabe: un bel risparmio!) Possiamo così decidere di chiamare ciascun numero con l’espressione che richede il minor numero possibile di sillabe: un’ottima idea, se abbiamo bisogno di risparmiare spazio.
A questo punto entra in gioco il signor G. G. Berry, che non era esattamente l’ultimo arrivato dato che era bibliotecario alla Bodleiana, una delle più importanti se non la più importante biblioteca di Oxford. Il signor Berry, poco più di cent’anni fa (era il 1904), ebbe l’idea di pensare a un numero che in fin dei conti un suo minimo interesse ce l’aveva: “il più piccolo numero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe”. Si sa che i bibliotecari, quando si tratta di definire qualcosa, sono sicuramente bravi, no? Per amor di precisione, il testo originale inglese parla di “the least integer not nameable in fewer than nineteen syllables” (che in inglese dovrebbe essere 111.777, dice wikipedia); e sempre wikipedia afferma che in realtà Berry parlava semplicemente del più piccolo numero ordinale non definibile. (I numeri ordinali sono quelli che usiamo per contare “uno, due, tre…”. Finché usiamo numeri finiti non c’è una differenza pratica con i numeri cardinali che dicono in un botto quanto è grande un insieme; con i numeri transfiniti sì, ma non è questo il momento di parlarne)
Questo numero, chiamiamolo b in onore di Berry, deve per forza esistere: in fin dei conti i numeri sono infiniti, e le frasi composte al più di trenta sillabe sono finite. Occhei, sarà probabilmente un numero molto grande, ma in linea di principio lo si può calcolare. Persino un costruttivista come Brouwer, che giusto in quegli anni stava lamentandosi di come l’infinito venisse usato in maniera un po’ troppo disinvolta, non avrebbe avuto nulla da dire sulla correttezza della definizione. Ma era proprio così? Mica tanto. In effetti, se siete stati attenti, la frase “il più piccolo numero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe” di sillabe ne ha 25. Ma allora non ci può essere nessun numero con tale proprietà! Se ci fosse un siffatto numero b, infatti, automaticamente gli potremmo affibbiare la descrizione di cui sopra e quindi non è vero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe. Ciò è indubbiamente berrybile.
Qui c’era qualcosa che non andava: e subito Berry chiese lumi all’indubbio esperto del campo: quel Bertrand Russell che pochi anni prima aveva dato un duro colpo al lavoro di una vita di Frege con il famoso paradosso del barbiere del villaggio che fa la barba solo e unicamente a chi non se la fa da sé. (per la cronaca, il barbiere si chiavama Andrea ed era una splendida fanciulla…). Russell ci pensò un po’ su e alla fine sentenziò che il problema non si poneva: la definizione di b non era infatti valida perché era una metadefinizione, visto che non definiva un numero ma le proprietà del numero. Per fare un esempio più terra terra, se diciamo “tre ha tre lettere” non stiamo parlando del numero tre (anzi 3), ma della parola che lo definisce: il “lessicale”, mi suggeriscono i miei amici filosofi. Il paradosso gli sembrò comunque interessante, tanto che lo inserì come primo nella lista di sette che presentò nei Principia Mathematica: e chissà, magari la teoria dei tipi, l’idea cioè che ci fosse una gerarchia di insiemi dove a ciascun livello gli elementi costitutivi potevano essere al più insiemi dei livelli inferiori, nacque anche pensando a questa differenza tra numero e definizione del numero. Non che tutta quella fatica gli sia servita a qualcosa, visto che venticinque anni dopo Kurt Gödel gli scombinò tutta la sua teoria. E paradossalmente, una cinquantina d’anni dopo, Greg Chaitin riprese in mano il paradosso di Berry, lo formalizzò usando un linguaggio di programmazione, e riuscì in questo modo a dare una nuova (e più semplice) dimostrazione del Teorema di Incompletezza di Gödel. Una vendetta postuma, insomma…
Che dire? State sempre attenti, quando vi mettete a contare, perché non si sa mai dove si nascondano le insidie! (Se vi piacciono questi temi, consiglio la lettura anche dei Rudi Matematici)

Ultimo aggiornamento: 2008-07-02 12:49

40 pensieri su “Il paradosso di Berry

  1. paolo beneforti

    perché non si può dare un nome ad ogni numero reale? certo, non si può fare un elenco di tali nomi, essendo infiniti(*); e dipende da cosa si intende con “dare un nome”; ma se ogni numero reale è indicabile con un segno, quel segno ha un nome.
    più che “dare un nome” direi comunque “esiste un nome” non arbitrario.
    dove sbaglio? ovvero: che significa questo? :”Dopo Cantor sappiamo infatti che i numeri reali sono “più infiniti” delle parole che abbiamo a disposizione”

  2. .mau.

    @pbeneforti: se tu hai a disposizione un numero finito di segni distinti che puoi giustapporre in quantità a piacere, il numero totale di “segni composti” che hai è infinito numerabile (aleph_0). La stessa cosa vale anche se i tuoi segni distinti sono infiniti ma numerabili. I numeri reali sono più che numerabili, quindi non può esserci corrispondenza 1 a 1 tra i “segni composti” e i numeri reali. Certo che se tu hai la possibilità di usare una quantità più che numerabile di segni (banalmente, un segmento di lunghezza pari al valore assoluto del numero, e posizionato nord-sud per i numeri positivi e ovest-est per quelli negativi) allora puoi associare un segno a ogni numero reale; ma stiamo andando piuttosto lontani dalle ipotesi originali.
    Come nota correlata, esiste anche il paradosso della precisione infinita: se tu fossi in grado di avere una precisione infinita, potresti codificare tutta la Britannica (o se preferisci, Wikipedia in tutte le lingue :-) ) in un singolo righello con un’unica tacca. Basta considerare il rapporto di lunghezza tra la posizione della tacca e la lunghezza complessiva del righello e “tradurre” il numero decimale infinito in maniera opportuna.

  3. delio

    chi l’ha detto che un alfabeto debba avere un insieme finito di simboli? per quanto mi riguarda trovo restrittivo persino un alfabeto numerabile. abbasso gli alfabeti discreti!
    (.mau., quando ho letto ‘berrybile’ mi e` scappato un ghigno. lo humor dei matematici e` terrificante)

  4. .mau.

    Aggiungo solo che tutta la storia la trovate nel capitolo 8 dell’hofstadteriano I Am a Strange Loop, e se avete ancora tre mesi di pazienza ve la potrete leggere anche nella traduzione italiana.

  5. fB

    > chi l’ha detto che un alfabeto debba avere un insieme finito di simboli?
    Il teorema di Löwenheim-Skolem, che però afferma anche il contrario! Niente paura, nessuna contraddizione: è la parola “debba” che ha piú di un significato.

  6. fB

    Beneforti, “insieme numerabile” significa “che può essere contato”, creando una corrispondenza biunivoca tra gli elementi dell’insieme e i numeri naturali: se mi trovo lungo una strada e conto le automobili che passano faccio esattamente questo.
    I numeri reali, per esempio, non sono numerabili, Cantor ha dimostrato (con una dimostrazione che, fatta salva qualche sottigliezza tecnica, non è difficile da seguire) che non possono essere messi in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali, non possono dunque essere “contati” e ce ne sono di piú che i numeri interi (hanno la “cardinalità del continuo”).
    Curiosamente il teorema di Löwenheim-Skolem che ho citato in precedenza implica che i numeri naturali ammettono un modello con la cardinalità del continuo e che, viceversa, i numeri reali possiedono un modello numerabile. Bisognerebbe prima definire cos’è un “modello”, ma i margini di questo commento sono troppo ridotti…

  7. hronir

    nooooooooo!
    ti prego, fB, provi a “definirmi” cos’e’ un modello? Anche in parole semplici… io vado sempre in confusione, quando penso ai modelli (e.g. se formalmente puoi solo dimostrare, che senso ha parlare di verità? come si fa, formalmente, a parlare di verità in un modello, se l’unica cosa che si sa fare, formalmente, e’ dimostrare? tutto questo, ovviamente, ha a che fare col teorema di goedel: che senso ha dire che una certa proposizione indecidible e’ vera in un certo modello, se non sai dimostrarla?)

  8. fB

    > provi a “definirmi” cos’e’ un modello?
    Non è che non voglio, è che non sono capace perché conosco l’argomento superficialmente e mi mancano delle buone analogie. Proverò, nonostante rischi di dire cose completamente fuorvianti…
    Lasciando da parte la teoria dei linguaggi formali (e quindi ogni pretesa di esattezza) un modello per una teoria è essenzialmente una qualche costruzione esplicita (un insieme, per esempio) che soddisfa (i cui elementi soddisfano…) gli assiomi della teoria stessa, in un’opportuna interpretazione.
    Un piano e un iperboloide iperbolico (una “sella”) sono entrambi modelli espliciti della teoria definita dai primi quattro assiomi di euclide. In uno di questi modelli vale il quinto postulato, nell’altro no, il che dimostra che il quinto postulato è indipendente dagli altri (visto che esistono modelli dei primi quattro in cui il quinto vale, e modelli in cui non vale). Inoltre l’esistenza di un modello in cui il quinto postulato vale dimostra che esso non è contraddittorio con gli altri quattro. E cosí via…
    Il teorema L-S citato sopra, tra le altre conseguenze, stabilisce anche che ogni teoria (del primo ordine, vale a dire con regole fisse, prive di variabili libere) che ha un modello infinito ammette almeno un modello numerabile e almeno uno (quindi infiniti) di cardinalità strettamente superiore a quella del modello originale.
    In pratica si può costruire un modello dei numeri reali usando solo i numeri naturali, ma tale modello non apparirà “naturale” (tutti i concetti relativi ai numeri naturali “ordinari” andranno opportunamente reinterpretati in modo complicato) e, viceversa, si può costruire un modello dei numeri naturali utilizzando i numeri reali (con una reinterpretazione parimenti complicata).
    Semplicemente, all’interno di questi modelli mancano alcuni degli assiomi che permettono di rendersi conto – restando all’interno del modello stesso – di cosa siano gli oggetti con cui si sta lavorando. Proprio come si possono costruire modelli di geometria iperbolica su superfici bidimensionali di uno spazio euclideo tridimensionale: finché si resta sulla superficie non ci si rende conto che si è in uno spazio euclideo.

  9. paolo beneforti

    fB (ty), penso che mi guarderò la dimostrazione perché la non-numerabilità (che mi pare sia ciò che immaginavo fosse) non mi pare implichi la non esistenza di nomi unici e non arbitrari per ogni numero reale. chiaramente ciò dipende direttamente da come si traduce matematicamente (cioè da come si formalizza) il “dare un nome”.
    esistono forse numeri reali di cui non si può scrivere una notazione?

  10. .mau.

    @pbeneforti: forse ho capito il tuo dubbio.
    In potenza, qualunque numero reale può avere un nome. Su questo non ci sono dubbi.
    In atto (partendo dal principio di avere un alfabeto di simboli finito o numerabile, e di avere una notazione lunga a piacere ma comunque anch’essa al più numerabile) non puoi dare contemporaneamente (o anche “uno per volta”, se preferisci, perché questo equivale a dire che sono numerabili) un nome distinto a tutti i numeri reali.
    Così è più chiaro?

  11. delio

    > esistono forse numeri reali di cui non si può scrivere una notazione?
    no. ed è anche facile da dimostrare:
    tu prendi un numero – per semplicità, diciamo un numero maggiore o uguale a 0 e strettamente inferiore di 1; altrimenti lo sommi ad un numero intero, di cui certamente esiste una notazione in base agli assiomi di peano.
    preso questo numero? bene. per prima cosa, controlla se è maggiore o uguale a 0,5 o se invece è strettamente inferiore di 0,5. nel primo caso scrivi 1, nel secondo 0 (e scarta l’intervallo al cui interno il tuo numero NON si trova). dell’intervallo di lunghezza 0,5 che rimane, fai lo stesso: dividilo a metà (0,25 oppure 0,75), controlla se il tuo numero si trova nella prima o nella seconda metà, nel qual caso scriverai sul tuo foglietto 0 o 1, rispettivamente. metti da parte l’intervallo che non contiene il tuo numero e dividi a metà l’intervallo che ti è rimasto; e ripeti ricorsivamente. in questo modo otterrai una sequenza di 0 e 1 (che per inciso è la rappresentazione in sistema binario del tuo numero). a tutti i numeri compresi tra 0 e 1 è associabile una ed una sola di queste rappresentazioni.

  12. hronir

    paolo benforti, non e’ che esistono numeri reali che non puoi nominare, il punto e’ che non puoi nominarli tutti.
    fB, grazie, ma il punto che mi lascia perplesso resta nascosto fra le pieghe: quel che chiami modello iperbolico per la geometria euclidea (senza quinto postulato) non e’ altro che un sott’insieme (spero tu mi segua con un linguaggio un po’ spannometrico) della geometria euclidea tradizionale, cui e’ possibile far “vestire”, come dici, i panni di geometria euclidea (senza V post). Ma quando vuoi dimostrare qualcosa in questo differente modello (ad esempio che vale la negazione del quinto postulato) non puoi far altro che ricondurti nella vecchia geometria euclidea e procedere con una dimostrazione usuale.
    Insomma, quel che non mi e’ chiaro e’ questo. Una teoria formale e’ qualcosa che e’ possibile definire con una pedanteria insopportabile (alfabeto di simboli, regole di inferenza, etc etc) mentre il concetto di modello, ovunque ne legga, e’ sempre presentato in termini di “interpretazione (intuitiva) di certi assiomi”. E la cosa che mi turba, ovviamente, non e’ tanto la mancanza di una definizione, quanto il fatto che, nonostante non conosca una definizione, vedo utilizzato il concetto di modello all’interno di proposizioni ben specifiche (come, appunto, l’affermazione per cui l’esistenza di un modello garantisce la non contraddittorieta’ della teoria… etc etc).
    Boh…

  13. paolo beneforti

    .mau. probabilmente è quello che dici tu, il punto che mi lascia perplesso. non, chiaramente, il fatto che tali nomi sarebbero infiniti – cosa che varrebbe anche per Q e N.
    delio: scrivere una notazione binaria (o anche decimale) di un numero irrazionale lo vedo arduo. :D per numeri come pigreco o radice-di-due occorre un simbolo.

  14. .mau.

    @hronir: dal mio punto di vista (che però non è quello di un logico), un modello di una teoria è l’interpretazione della teoria stessa dando delle associazioni diverse agli enti indefiniti. Il modello di Poincaré della geometria lobacevskiana nel cerchio euclideo (vedi il disegno di Escher e la sua versione idealizzata) dice semplicemente «se definiamo “piano” un cerchio meno la sua circonferenza esterna C, “punto” un punto all’interno del “piano”, “retta” un arco di cerchio che tagli C ad angoli retti oppure un diametro di C (che in effetti taglia C ad angoli retti), a questo punto tutti i teoremi euclidei che non fanno uso del quinto postulato di Euclide sono veri, date le nostre nuove definizioni.»
    Il punto del modello è semplicemente quello di dire «se la geometria euclidea è coerente, allora anche quella iperbolica lo è», ma i conti te li puoi fare anche senza modello. O se preferisci, il piano standard è un modello per la geometria euclidea.
    Non parlerei poi di “sottinsieme”: tanto per fare un esempio, al teorema “la somma degli angoli interni di un triangolo è 180 gradi” corrisponde il teorema “la somma degli angoli interni di un triangolo è 180 gradi meno ecc“, dove ecc è una funzione ben precisa dell’area del triangolo.

  15. fB

    A questo ha risposto .mau. meglio di me, che neanche sono un logico (a me interessa(va)no i modelli fisici).
    Gli spazi iperbolici immersi in quelli euclidei ricordano l’attuale situazione nella fisica delle alte energie, dove esistono cinque modelli di teoria delle superstringhe differenti, ma che appaiono collegati tra loro abbastanza misteriosamente (piú un sesto modello un po’ diverso), a metà degli anni ’90 Edward Witten ha proposto che siano sottomodelli immersi in una teoria unica che non conosciamo ancora.
    Trovare questa ipotetica M-teoria sarebbe un po’ come ricostruire la forma di uno spazio tridimensionale basandosi sulla conoscenza di alcune delle superfici bidimensionali che vi sono immerse (quest’ultima è un’impresa disperata, i teorici delle stringhe sperano che la loro non lo sia altrettanto).

  16. delio

    paolo, non pretendo di scrivere tutte le infinite cifre di un numero irrazionale, mi basta precisare un algoritmo che mi permetta in linea teorica di iniziare questa scrittura e, soprattutto, di distinguere due numeri reali distinti. per inciso, la dimostrazione del fatto che i reali sono piú che numerabili, nella sua versione classica di cantor, sfrutta in maniera essenziale la possibilità di una rappresentazione del genere.

  17. hronir

    si’, .mau., ho usato il termine sottinsieme in senso molto improprio, intendevo dire che una dimostrazione di un teorema nella geometria lobacevskiana puo’ essere ricondotta ad una dimostrazione nell’usuale geometria euclidea che faccia uso dei concetto di “cerchio senza circonferenza” e “arco di cerchio etc etc” al posto dei concetti di piano e retta. Questo a dire, come sottolinei, che questa storia dei modelli mette in relazione la coerenza di geometrie (non nel senso di modelli, ma propriamente nel senso di teorie formali) diverse.
    I miei dubbi sul concetto di modello sono, come dicevo, di natura “teorica” e in particolare in riferimento al teorema di Goedel. E in particolare ancora a quella diffusa maniera di “tradurlo” che parla di “affermazioni vere, ma non dimostrabili”. Il mio dubbio e’: cosa mai significa “vero”? La risposta tipica e’ “vero in un (particolare) modello di quella teoria”. Ma come fai a convincermi della verità di un’affermazione, se non cercando di dimostrarla?
    Il discorso e’ complesso (e, nella mia testa, confuso) perche’ in realta’ un modo, forse, c’e’. Immaginiamo che una proposizione indecidibile G sui numeri naturali (diciamo l’aritmetica di Peano) asserisca l’esistenza di un numero intero con una particolare caratteristica X. Siccome G e’ indecidibile, non posso trovare un particolare numero intero che soddisfi X (altrimenti avrei di provato G per costruzione). Il fatto che sia indecidibile significa altresi’ che non riusciro’ nemmeno a dimostrare che non-esistenza di alcun numero che soddisfi X. Immaginiamo ora di considerare l’aritmetica di Peano con l’aggiunta di non-G. La cosa sembra “naturale”: vuol dire che non troveremo mai un numero con la caratteristica X. Ma se consideriamo l’aritmetica di peano con l’aggiunta di G? Questo numero deve allora esistere! La soluzione e’ quella di trovare un’altro modello dell’aritmetica di Peano in cui il concetto di numero intero sia tale da ammettere un numero con la proprieta’ X. Tutto questo, insomma, per dire che dunque l’affermazione non-G e’ vera per i numeri naturali “ordinari”, ma non dimostrabile.
    La qual cosa mi confonde parecchio.
    (E scusate la prolissita’ di questo commento)

  18. paolo beneforti

    ok, ho fatto ‘sta pensata per affrontare il paradosso (apparente?) per cui ogni numero reale ha un nome (che è, al limite, il modo in cui si legge la sua notazione, sia essa simbolo, algoritmo o vasetto di yogurt) ma non si può definire l’insieme dei nomi dei numeri reali.
    dato che R si può definire assiomaticamente (con Dedekind), uno potrebbe pensare di definire assiomaticamente l’insieme dei nomi di R (nR); oppure di definire il concetto di “nome di un numero” e applicare a tale definizione gli assiomi di R.
    in entrambi i casi si deve lavorare con cose diverse dai numeri, cioè con delle stringhe alfabetiche, finite o no, formate dalla combinazione di un numero limitato di segni. poi bisogna che questi nomi abbiano una loro coerenza (del tipo che se 20 è “venti” e 1 è “uno”, allora 21 è “ventuno”); e inoltre bisogna che i nomi formati da una serie infinita di lettere abbiano dei “soprannomi” (alla maniera in cui “trevirgolaunoquattrounocinquenove…” è chiamato “pigreco” – per gli amici :D).
    chiaramente, poi, l’insieme risultante nR deve poter stare in corrispondenza univoca con R.
    immagino che tutto ciò sia banale e/o poco sensato, ma si consideri che fa caldo.

  19. paolo beneforti

    …e direi che, ammesso che ciò abbia senso, converrebbe andare a ritroso e partire dalle proprietà che deve avere un insieme per poter essere in corrispondenza univoca con R (in sostanza quanto deve essere “denso”, immagino) e poi fabbricare un insieme alfabetico con tali proprietà.
    così a braccio pare semplice prendere R e sostituire alle cifre (0…9, restando nel decimale) le prime 10 lettere dell’alfabeto; anzi, prendiamo tutte le vocali e le prime 5 consonanti, così è più probabile che si ottengano cose pronunciabili. :)
    cioè, si avrebbe in pratica una semplice notazione diversa di R, ferme restando tutte le sue proprietà; una notazione in cui ai segni 0,…,9 si sostituiscono i segni a,b,c,d,e,f,g,i,o,u.
    vabè, però anche le cifre arabe hanno dei nomi alfabetici, abbastanza brevi; quindi che differenza c’è, a cambiare “zero” con “a” e “ventitre” con “cd”? nessuna, direi. anzi, da ciò si dedurrebbe che un insieme dei nomi di R è R stesso laddove si usi “uno” al posto di “1”, “due” al posto di “2”, “virgola” al posto di “,” eccetera. e qua mi incarto in una specie di tautologia. :D

  20. .mau.

    è comunque sempre la stessa storia tra infinito potenziale e attuale: se ciascun numero reale può avere un nome, abbiamo un’infinità potenziale di nomi, e non ci sono problemi di nessun tipo. Se vuoi dare un nome a tutti i numeri reali, si passa all’infinito attuale, e qua ci si incasina per davvero.

  21. fB

    > Il mio dubbio e’: cosa mai significa “vero”?
    Di solito si usa la definizione di Tarski derivata da Aristotele.
    Verità e dimostrabilità sono due concetti ben separati, in qualunque teoria che comprenda al proprio interno l’aritmetica degli interi non negativi la maggior parte delle proposizioni vere non sono dimostrabili e, viceversa, la maggior parte delle proposizioni false non sono falsificabili. Gödel riuscí a costruire, esplicitamente, nell’aritmetica ordinaria una proposizione che si può tradurre nel linguaggio ordinario come “io non sono dimostrabile”. Questa proposizione deve essere vera per forza, perché se fosse falsa sarebbe dimostrabile, conducendo a una contraddizione; ma proprio perché quel che dice è vero non può essere dimostrata.
    Una teoria dove tutte le proposizioni vere sono dimostrabili (una teoria “completa”) è l’aritmetica di Presburger, che è l’aritmetica senza moltiplicazione (vi si può definire la moltiplicazione per qualunque costante data in funzione dell’addizione, ma non il concetto generale di moltiplicazione, il che impedisce di usare il principio di induzione per dimostrare formule che contengano il simbolo di moltiplicazione). È una teoria molto poco potente, per esempio non vi si può definire il concetto di numero primo. L’aritmetica di Presburger, tuttavia, basta e avanza per fare il conto della spesa, o il bilancio dello stato.
    Un’altra teoria completa è l’aritmetica dei numeri reali, quando non vi si introduca il concetto di numero intero.

  22. vb

    Mah, continuate con tutte ‘ste matematiche, tanto quando c’è da far funzionare qualcosa chiamano un ingegnere con un simulatore :-P

  23. hronir

    Non sono convinto di quel che dici.
    Se la proposizione “io non sono dimostrabile” fosse vera, non potremmo assumerla come falsa fra gli assiomi e fare una teoria alternativa (non sarebbe indecidibile).
    In realta’ e’ possibile benissimo prendere la proposizione di goedel come falsa (e ottenere, ad esempio, l’analisi non standard).
    Questo e’ il vecchio vizio delle interpretazioni del teorema di goedel (vero, ma non dimostrabile).
    Quel che mi pare di capire e’ che quella proposizione di goedel e’ “vera” (lo metto fra virgolette perche’, come dicevo, io non ho chiari i concetti di vero/falso) nel modello “tradizionale” dei numeri naturali, mentre puo’ essere “falsa” se si considera un differente concetto di numeri naturali (in cui esisto quei numeri infiniti il cui inverso costituisce l’infinitesimo dell’analisi non standard…). E dunque torniamo alla confusione sul concetto di modello…
    Sono di fretta, ci rimugino su… (e daro’ un’occhiata al link… thx!)

  24. J_B

    @ .mau. : “se tu fossi in grado di avere una precisione infinita, potresti codificare tutta la Britannica […] in un singolo righello con un’unica tacca”

  25. .mau.

    @J_B: il fatto che un atomo abbia una dimensione finita non significa che tu non possa raggiungere una precisione alta a piacere. Basta scegliere il punto centrale dell’atomo come tuo indice della tacca.

  26. fB

    hronir>> Se la proposizione “io non sono dimostrabile” fosse vera, non potremmo assumerla come falsa fra gli assiomi e fare una teoria alternativa
    Niente vieta che una proposizione sia vera in una teoria e falsa in un’altra: per esempio il quinto assioma di Euclide è vero negli spazi euclidei e falso in quelli iperbolici.
    Il concetto di verità è relativo alla teoria che si prende in considerazione, la proposizione indecidibile di Gödel è vera nella teoria di partenza (ma per saperlo dobbiamo costruire una metateoria, la teoria di partenza non ne sa nulla), tuttavia niente vieta di costruire una teoria diversa in cui la negazione della proposizione sia assunta tra gli assiomi, dato che il teorema di Gödel assicura che non si introdurranno nuove contraddizioni.
    Una teoria in cui la negazione di una proposizione indecidible sia assunta tra gli assiomi è una teoria diversa da quella di partenza che viene definita estensione “non-standard” della teoria di partenza; l’estensione “standard” è quella in cui la proposizione originale è assunta come assioma.

  27. fB

    @.mau.: La meccanica quantistica relativistica prevede che non si possano misurare in alcun modo lunghezze inferiori alla scala di Planck. A quella scala la struttura dello spaziotempo è completamente ignota, anzi, è ignoto se esista qualcosa di assimilabile al concetto usuale di spaziotempo.

  28. .mau.

    lo so che non si può misurare nulla al di sotto della scala di Planck, e che il paradosso del righello è impossibile in questo universo per le conoscenze di esso che noi abbiamo. Ma mi pareva fosse già chiaro dal mio commento iniziale…

  29. hronir

    ok, fB, comincio a vedere qualche spiraglio di luce.
    Ma forse nel tuo ultimo commento volevi dire “modello” invece di “teoria”?
    La teoria non e’ definita dai semplici assiomi? Come fai a dare una “definizione” di una teoria che non sia l’elenco dei suoi assiomi?

  30. hronir

    No, di nuovo buio.
    fB, dici:
    Una teoria in cui la negazione di una proposizione indecidible sia assunta tra gli assiomi è una teoria diversa da quella di partenza che viene definita estensione “non-standard” della teoria di partenza; l’estensione “standard” è quella in cui la proposizione originale è assunta come assioma.
    ma “standard” e “non-standard” sono solo etichette, no?
    Immagina di essere partito con l’interpretazione che oggi chiamiamo “non-standard”. Tutti i passi che fai per costruire la proposizione indecidibile di Goedel sono esattamente gli stessi (perche’ dipendono solo dagli assiomi, e gli assiomi sono gli stessi). Come fai dunque a dire che la proposizione indecidibile di goedel e’vera? Non capisco cosa tu intenda per “costruire una meta teoria”: quel che possiamo fare, in ogni caso, e scegliere se assumere la proposizione di goedel come vera o come falsa. Questo dal punto di vista formale, degli assiomi.
    Dal punto di vista dei modelli, ho il sospetto che effettivamente non sia una questione di “scelta”, ma ancora non mi e’ chiaro come si possa giocare col concetto di verita’, se tutto cio’ che abbiamo e’ la dimostrabilita’…

  31. fB

    ma “standard” e “non-standard” sono solo etichette, no?
    No. Non si può partire con l’interpretazione “non-standard”, tale interpretazione ha bisogno di un assioma specifico.
    Prendiamo l’aritmetica ordinaria e i numeri primi. L’ipotesi dei numeri gemelli sostiene che esista un infinità di coppie di numeri primi interi (n, n+2). Tale ipotesi non è stata né dimostrata né refutata.
    Supponiamo che qualcuno riuscisse a mostrare (non nell’aritmetica stessa, ma nella teoria che ha come oggetto l’aritmetica, cioè la meta-aritmetica) che questa ipotesi è una proposizione di Gödel.
    Da ciò seguirebbe che nell’aritmetica ordinaria tale ipotesi è vera, cioè che non è possibile trovare un numero intero N tale che non esista nessuna coppia di numeri primi gemelli maggiore di N. Ne seguirebbe anche che, all’interno dell’aritmetica tale affermazione è indecidibile, e quindi non ci sarebbe modo né di costruire l’inesistente numero N (ovviamente) che di provarne l’inesistenza.
    Ma, sempre per il teorema di Gödel, sarebbe invece possibile costruire una teoria diversa dove l’esistenza del numero N fosse decretata da un assioma.
    Proprio per la presenza di tale numero N tale teoria sarebbe significativamente differente dall’aritmetica ordinaria (sarebbe possibile addirittura, per fare un esempio a caso, che in essa i numeri interi non formassero un insieme, ma che fossero una classe propria) ed è assai probabile che questo speciale numero N, l’unico la cui esistenza è stabilita da un assioma specifico, assioma che il teorema di Gödel ci assicura non essere in contraddizione con gli altri, avesse proprietà “strane” rispetto agli altri numeri la cui esistenza dipende da una costruzione del tutto diversa.
    Come detto sopra, nell’aritmetica ordinaria un numero con le proprietà di N non si può costruire, perché manca l’assioma corrispondente, e tanto meno sarebbe costruibile nell’estensione “standard” che ne negherebbe esplicitamente l’esistenza. Dell’assioma “non-standard” c’è bisogno perché il numero N esista, in assenza di quell’assioma, o in presenza della sua negazione, il numero N non esiste e la teoria è diversa.

  32. fB

    Hmm… il mio solito editing creativo ha fatto saltare la consecutio temporum in diversi punti….

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