Ieri sera siamo stati al Piccolo a vedere il primo dei due spettacoli (di fila…) che quest’anno Moni Ovadia tiene in cartellone. Lo spettacolo è piuttosto diverso da quelli usuali di Ovadia: il filo conduttore è l’emigrazione degli ebrei dall’est europeo negli Stati Uniti e specificatamente a New York, col racconto delle loro vicissitudini, dei primi tristi momenti e del loro successo nello spettacolo e nell’arte. Il tutto condito con le immancabili storielle yiddish, ma anche con riferimenti amerikani più o meno incredibili: Lee Colbert ha cantato una Zumertsayt che non è altro che Summertime in yiddish, oltre a In Vayse Nitl che è nientemeno che White Christmas. D’altra parte, Gerschwin e Berlin erano ebrei, no? Il tutto è accompagnato dalla Moni Ovadia Stage Orchestra che per una volta usa violino e fisarmonica insieme a una sezione di fiati, al contrabbasso e al pianoforte per una contaminazione quasi jazzistica e generalmente molto piacevole.
Il guaio, come dice anche Alberto, è nell’eccessiva lunghezza del tutto e nella disuguaglianza. Nonostante la biglietteria del Piccolo ci avesse spergiurato che lo spettacolo sarebbe durato due ore e mezzo, in realtà sono state tre ore e un quarto. E mentre il primo tempo, anche se lungo, è andato via leggero, nel secondo ci sono stati momenti piuttosto pesanti, come la declamazione della poesia di Allen Ginsberg e anche il finale con il dylaniano Hard Rain’s Gonna Fall. Diciamo che togliergli non dico un’ora ma quasi farebbe molto bene allo spettacolo.
Ultimo aggiornamento: 2006-10-08 16:29
L’ho visto pure io la settimana scorsa e sono completamente d’accordo.
Aggiungo una citazione erronea di una battuta di Groucho Marx, non ho capito se l’ha studiata bene e poi si è confuso a dirla oppure se proprio la sappia cannata (quella relativa alla iscrizione ai club).
Molto bravi gli strumentisti.
Se la citazione è quella “non vorrei mai fare parte di un club che avesse me come socio”, sabato l’ha enunciata correttamente.