L’ottimismo innanzitutto

Notizia un po’ nascosta su Repubblica cartacea di ieri, a proposito del piano di riorganizzazione della Zoppas. Inizio con la parte buona: viene affermato che le 400 persone in esubero verranno “accompagnate a un nuovo posto di lavoro”. Ma poi tremo a leggere le parole del sottosegretario Maurizio Sacconi: “Questo piano è in sè (sic) originale perché determina esuberi strutturali non già per una ragione di crisi aziendale ma per un programma di sviluppo”. Traduco: lo sviluppo di un’azienda passa per la riduzione dei posti di lavoro, e ciò è una bella cosa. Insomma, è già una palla doversi occupare di chi perde il posto, almeno godiamo per la sanità dell’azienda. Ma bisognava proprio esplicitarlo?

Ultimo aggiornamento: 2004-10-07 10:35

5 pensieri su “L’ottimismo innanzitutto

  1. .oOo.

    Mah, forse è ora che anche il popolo si renda conto che sviluppo economico e posti di lavoro sono due concetti non tanto strettamente collegati…

  2. mestesso

    Si, bisognava esplicitarlo, per dirla in termini matematici la dismissione e’ non canonica se viene fatta non per risolvere passivita’ ma per aumentare la redditivita’, come e’ successo a mestesso (vedere sito in link). Un tempo queste cose si facevano solo e solamente in stato di crisi, non quando si e’ in attivo e si vuole aumentare la redditivita’. In questo senso il ministro ha (purtroppo) ragione.
    l’economia prima vizia i suoi figli, poi se li mangia…se lo stato di cose continuera’ ancora per molto tempo, il contraccolpo sara’ alto, per tutti i mestieri nel campo IT. Leggevo che anche chi sviluppa SW gestionale, sicura isola italica per via di tutte le nostre strane normative, e’ in pericolo outsourcing….

  3. .oOo.

    Il problema è che quando sei già in stato di crisi è troppo tardi per salvare le cose. Una volta una azienda poteva permettersi tre anni di crisi più ristrutturazione, oggi ti mangiano dopo tre mesi.
    Sul fatto che in Italia ci sia poco futuro, anche nel settore IT, per chi lavora nelle grandi multinazionali, sono decisamente d’accordo. Qui resteranno le teste delle (pochissime) aziende IT che hanno qui la testa, e un po’ di mercato locale (quello che non ha senso fare dall’India).

  4. mestesso

    Il fatto principale e’ che la borsa condiziona troppo. Nel senso che agli azionisti non conta nulla del destino effettivo della ditta, ma che sforni soldi. Come e dove non importa. Il peso degli azionisti e specialmente la loro voracita’ imprime una drammatica pressione sul board. Ogi se vuoi crescere, devi bussare ai grandi capitali e sottostare a vincoli fortissimi. Anni fa non era cosi’. E’ falso che oggi non si sopportano piu’ 3 anni di crisi: le risorse ci sono nel mio caso, non e’ questo il problema. Il problema VERO e’ che al piano sopra i capitali non te li danno se non fai vedere che risparmi all’osso.
    Prova a pensare la qualita’ del lavoro in india….sono bravi si, ma anche li’ ti assicuro son rogne prima di far andare tutto a regime. Passi 2/3 anni prima di fare bene come prima.
    Pensi che a questo agli azionisti fotta qualcosa?
    Risparmi ora, produci male nel frattempo, incassi presto.
    Inoltre, le persone, il sociale, non conta nulla per te? Tu sei dall’altre parte dello steccato, guardi e sostanzialmemte te ne freghi, i tuoi soldi e la tua attivita’ ce l’hai lo stesso, la tua greppia e’ piena…chissa’ forse dai pure il mezzo euro al mendicante per strada e ti senti a posto cosi’. Spero non siano tutti come te.

  5. .oOo.

    >Nel senso che agli azionisti non conta nulla del destino effettivo della ditta, ma che sforni soldi.
    Una azienda è *per definizione* un meccanismo per creare denaro per i propri azionisti, almeno secondo le nostre attuali teorie socioeconomiche. La creazione di posti di lavoro è soltanto un effetto secondario: se c’è, meglio, se non c’è, non importa.
    Personalmente sono d’accordo sul fatto che questo principio sia pericoloso per la stabilità e l’equità sociale, tanto è vero che si stanno affermando modelli diversi, dal commercio equo e solidale al no-profit. Ma lamentarsi che lo scopo di una azienda è “sfornare soldi” è come andare allo stadio e lamentarsi perchè dentro c’è una partita di pallone.
    Il fatto che nessuno investa in una azienda che “non risparmia all’osso” (ossia, non spreca soldi inutilmente) è conseguenza della competizione globale che riduce i margini di errore e di spreco. Anche qui, può piacerci o non piacerci, ma la globalizzazione è un dato di fatto che nemmeno il governo italiano può arrestare – figurati il management di una azienda.
    E poi, ti sfugge che questi famigerati “azionisti” così crudeli e cattivi sono in molti casi un sacco di persone normalissime che investono in Borsa (cosa che magari vent’anni fa non succedeva così facilmente). Anche tu potresti comprare delle azioni della tua azienda e beneficiare dei suoi dividendi.
    Anche il fatto che la qualità del prodotto cali non mi pare uno scandalo: se cala troppo, il prodotto non si venderà e sarà dimostrato che, come dici tu, il management sta facendo una cazzata. Se invece alla fin fine si scoprirà che il prodotto fatto in India non è poi peggiore di quello fatto in Italia (cosa che credo, visto che il buon Dio non ha concentrato l’intelligenza del genere umano solo su Milano e provincia), avranno avuto ragione loro.
    “Le persone, il sociale” (che, perdonami, nella tua frase mi sembrano eufemismi che tu usi al posto di “me, il mio portafoglio e la mia scarsa voglia di cercarmi un’altra fonte di sostentamento”) contano moltissimo, ma, appunto, non c’entrano niente, visto che stiamo discutendo di una specifica decisione di una specifica azienda, e non dell’equità della distribuzione delle risorse nel genere umano.
    Ah, e forse ti sfugge che “i miei soldi e la mia attività” io li ho perchè, invece di piangere e pretendere aiuti quando l’azienda per cui lavoravo ha cominciato a ridimensionare la sede di Torino per una serie di motivi tanto spiacevoli quanto inevitabili, ho rischiato in proprio, ho lavorato per sedici mesi senza vedere una lira, e sono riuscito a mettere in piedi qualcosa che, per il momento (e questi settori, come ben sai, non sono molto stabili), mi dà da mangiare. Perchè non ci provi anche tu?
    Te l’ho già detto una volta: se davvero in Italia si può mettere in piedi un centro di ricerca che produrrà applicazioni molto migliori di quelle indiane, a costi concorrenziali, e senza necessità di sussidi a tempo indeterminato da parte della collettività, allora fallo.
    Se no, forse è ora che in Italia ci facciamo tutti un bell’esame di coscienza.

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