Pensioni

Inizio subito a dire che personalmente non sono toccato dalla famigerata riforma delle pensioni. Mi spiego: quando ho iniziato a lavorare, non mi sognavo nemmeno di credere di potere andare in pensione con meno di quarant’anni “veri” di contributi (purtroppo per me, era già troppo tardi per riscattare il corso di laurea in maniera economica), quindi le mie aspettative non sono cambiate. Ma in generale?
Fino agli anni ’80, il sistema funzionava totalmente con il metodo retributivo: quando andavi in pensione, per ogni anno in cui avevi lavorato avevi diritto a un tot percento (generalmente il 2%) del tuo ultimo stipendio. Il tutto funzionava in una società in cui ci sono molti più lavoratori che pensionati, e quindi i soldi venivano in un certo senso distribuiti subito ai beneficiari: però portava a delle storture anche in questa condizione, visto che un’azienda poteva spendere poco per aumentarti lo stipendio l’ultimo anno e farti un regalo a spese dello Stato. Ad ogni modo, la cosa non era più sostenibile, anche perché il numero di occupati si stava stabilizzando mentre il numero di pensionati cresceva, sia per la durata molto maggiore della vita che per il pensionamento di gente ancora giovane per i motivi più vari, non ultimo una surrettizia forma di tutela sociale.
Cosa è successo? Innanzitutto si è provato a correggere le storture più evidenti, calcolando la base pensionabile non sull’ultimo anno ma su un certo numero di anni previa rivalutazione; ma alla fine si è stati costretti con la riforma Dini ad aumentare (un poco) l’età minima pensionabile, e soprattutto a passare al sistema contributivo. In questo caso, i contributi pagati da qualcuno durante la sua vita lavorativa, con un certo coefficiente di rivalutazione – in fin dei conti vengono ben investiti, no? – verranno restituiti come pensione in base ai calcoli attuariali dell’aspettativa di vita all’atto del pensionamento. La cosa formalmente è perfetta: la mia pensione corrisponde a quanto ho pagato. Peccato che le cose non funzionino così nella pratica. Come mai?
Innanzitutto, i sindacati hanno preteso (giustamente) di conservare i “diritti acquisiti”, ma hanno razzolato male, probabilmente con un occhio alla loro base. Così chi aveva più di 18 anni di contributi alla fatidica data non ha visto cambiare nulla, mentre per gli altri si è passati al metodo retributivo. E non sono affatto certo che la mia pensione sarà calcolata pro-quota (se avevo lavorato per dieci anni prima dell’inizio della legge, logica vorrebbe che il 20% equivalente a quei dieci anni fosse calcolato come prima della riforma, mentre il resto della pensione deriva dai trent’anni di contributi pagati): temo insomma di prendermela in quel posto. D’altra parte, il passaggio di tutti al sistema contributivo pro-quota avrebbe reso molto più semplice calcolare la spesa per le pensioni, e non ci sarebbe stata disparità. Inoltre a regime si sarebbe potuto permettere a chiunque di andare in pensione quando voleva: è chiaro che – a parità di contributi pagati – se io vado in pensione a 50 anni e tu a 60 il tuo assegno deve essere maggiore perché statisticamente vivrai meno di me, ma questo lo si poteva sapere subito, e i vari coefficienti di aspettativa di vita potevano essere aggiornati ogni cinque anni, ed essere noti a priori. Forse allora ci si poteva anche permettere un eventuale allungamento dell’età pensionabile, che sarebbe stato più graduale di quello proposto adesso.
Invece, per cinque anni non succederà nulla, e poi ci sarà un buco di cinque anni in cui nessuno potrà andare in pensione per anzianità, alla faccia della gradualità. Un comportamento che ricorda i governi degli allegri anni ’80, che nascondevano sotto il tappeto del futuro i debiti che contraevano, per non perdere consensi. Peccato che il sindacato non abbia la volontà di proporre una vera controproposta, e quindi non ci si muoverà da questo pastrocchio.
Un’ultima nota: anche se l’INPS è stata istruita da Maroni a non far vedere i dati, penso sia ancora vero che la parte di previdenza dell’istituto è per il momento in sostanziale pareggio, mentre quella di assistenza (invalidità e pensioni sociali) è in deficit. Non sto affermando che queste pensioni debbano essere tagliate. Quello che dico è che non ha senso che siano solo i contributi pensionistici dei lavoratori a pagare il welfare, e queste spese dovrebbero essere visivamente separate. S’ha sempre da pagare, ma almeno si può capire dove vanno i soldi…

Ultimo aggiornamento: 2003-10-01 17:00

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