In questi giorni i lavoratori e pensionati di tutta Italia sono chiamati a votare a favore o contro l’accordo siglato lo scorso 23 luglio tra governo e sindacati sul “welfare”, quella misteriosa parola che si è incuneata nella nostra lingua senza che nessuno sappia esattamente di che si parli. Nella mia sede di lavoro il seggio c’era oggi, dalle 10 alle 16, in sala mensa; dopo pranzo ho posato il vassoio, ho preso il pezzo di carta che vale come scheda, e l’ho coscienziosamente annullata, scrivendo qualcosa tipo “perché devo essere io a pararvi il culo?” Solo che lasciare la cosa così non ha un grande senso, e dunque ora vi spiego che cosa penso io di tutta la cosa.
La votazione, a differenza di quanto capita dal prof. Farfi, richiede l’esibizione del nostro badge i cui dati vengono coscienziosamente trascritti dai due delegati che ci fanno anche firmare il registro. C’è persino stata un’assemblea un paio di settimane fa: è vero che noi l’abbiamo scoperto solo perché ho casualmente telefonato al sindacato il venerdì a mezzogiorno e mi è stato detto che lunedì mattina ci sarebbero stati i rappresentanti, ed è anche vero che si è praticamente solo parlato dei risultati del nostro metà contratto, ma non sottilizziamo su tali quisquilie.
Quello che vedo io è che l’accordo è un brutto accordo, nel senso che non aiuta nessuno. Lo scalone viene sostituito da una enorme scalinata, tanto che quelli della mia età andranno probabilmente in pensione più tardi; i coefficienti di trasformazione per abbassare la rendita pensionistica all’allungarsi della vita media sono stati fatti ripartire, come del resto si sarebbe dovuto fare già due anni fa; le modifiche alla legge Biagi sono state solamente cosmetiche; gli aumenti alle pensioni sono stati stralciati e messi in Finanziaria. Il tutto ha comunque un costo, stimato in dieci miliardi di euro in dieci anni, che è alto in assoluto ma non certo in relativo, visto che il bilancio annuale INPS supera i duecento miliardi di euro.
Però votare contro l’accordo non ha senso, dal mio punto di vista. Diciamocela tutta: al metodo contributivo per il calcolo delle pensioni ci si doveva arrivare, visto che una crescita esponenziale dei lavoratori è impossibile. E col metodo contributivo, o si alzano i coefficienti pagati dai lavoratori, o si decide che lo stato si accolla certi costi, e quindi dobbiamo tutti pagare più tasse, o si lavora per più anni, o la rendita della pensione si deve abbassare. Questi sono numeri, non opinioni. Piuttosto, la Triplice avrebbe dovuto lottare sul fronte della legge Biagi, costringendo Confindustria a pagare di più per i lavoratori non a tempo indeterminato e usando quei soldi – oltre che per la pensione futura dei co.pro – per ammortizzatori sociali seri.
Il punto è proprio questo: il sindacato, che è ormai fondato soprattutto da pensionati e gente che in pensione ci starebbe per arrivare, non ha avuto il coraggio di un’azione incisiva su quel fronte che “non gli dà soldi” (e ci credo), e ha preferito una minima rendita di posizione sui “suoi”. Non solo, ma non ha nemmeno avuto il coraggio di firmarlo, quell’accordo: non stiamo parlando di un contratto di settore, dove l’ipotesi finale è un compromesso ovviamente a perdere rispetto alla proposta votata dai lavoratori e ci si può chiedere se non ci è calati troppo le braghe, ma di un accordo in piena regola. E forse che chiedere la firma dei lavoratori non è un pararsi il culo?
Ultimo aggiornamento: 2007-10-08 18:16