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san Lorenzo e sant’Eustorgio

Domenica scorsa il tempo a Milano era stranamente primaverile, a differenza dei giorni precedenti e seguenti. Così Anna e io abbiamo pensato bene di andare a farci un giro turistico-culturale nella grande metropoli padana dove ormai da parecchi anni vivo. L’idea iniziale era andare a vedere il museo diocesano; strada facendo abbiamo pensato che forse era meglio dedicare alla visita una giornata più uggiosa, e ci siamo così mossi a piedi nella zona del Ticinese.
La basilica di san Lorenzo è più che altro nota per il colonnato al suo esterno, con le polemiche da un lato per i rifiuti buttati per terra tutte le notti e dall’altro perché non si vuole che il tram passi lì a fianco. Detto tra di noi, c’è un’alta correlazione tra queste cose, e non perché la gente getti bottiglie dal tram :-) Domenica però non ci siamo interessati al sagrato e siamo entrati a vedere l’interno, un curioso misto di pezzi in epoche che spaziano per più di un millennio e una tendenza all’accrezione simile a quella che avevo notato a Torino, alla Consolata. Per la cronaca, l’organo (in fase di restauro) è un Bernasconi-Bossi, quindi direi della scuola lombarda a cavallo tra il XIX e il XX secolo.
San Lorenzo ha anche l’equivalente ecclesiastico di una bonus track: la cappella di sant’Aquilino (ingresso 2 euro) che risale anch’essa al V-VI secolo e conserva alcuni resti di affreschi e soprattutto mosaici. Purtroppo i resti sono pochi, ma meritano davvero, soprattutto il Cristo con gli apostoli (e san Paolo al posto di Giuda..) che è in stile bizantino, mostrando come ci fossero comunque degli scambi culturali tra l’impero di Oriente e quello che era rimasto in occidente dopo la caduta di Roma.
Proseguendo su corso di Porta Ticinese, o se si preferisce passando dal parco delle Basiliche, si arriva all'”insigne basilica di sant’Eustorgio“, altro bell’esempio di chiesa antica: in questo caso romanica, come si vede anche dai resti di mattone a spina di pesce sul lato della basilica. L’interno è stato rimaneggiato relativamente poco nei secoli, il che è molto bello; tra le cappelle laterali quella viscontea conserva ancora buona parte degli affreschi, con un san Tommaso in trono – se non ho capito male – un po’ strano. Sganciando ben sei euro a cranio si può andare a vedere la cappella Portinari, che non c’entra nulla con Dante ma prende il nome dal committente, un banchiere del XV secolo. La cappella è dedicata a san Pietro abate, quello che vi trovate spesso raffigurato con un’ascia in testa e che ho scoperto essere un domenicano (Anna l’aveva intuito da saio e scapolare, mentre io mi ostinavo a crederlo del X-XI secolo. Ben mi sta). Oltre ad alcune raffigurazioni, si può anche vedere l’arca dove era contenuto il corpo del santo, e scoprire che oltre alle sette virtù cardinali e teologali stavolta è stata aggiunta l’obbedienza per pareggiare il numero di colonne.
Per i curiosi, ho scattato qualche foto – rigorosamente senza flash per ovvie ragioni – che si può vedere qua.
Aggiornamento: (19:30) Galliolus nei commenti mi fa notare che a sant’Eustorgio c’è la tomba dei Magi. È vero (è in fondo a destra, per la cronaca), ma almeno dal mio punto di vista era così poco interessante che me n’ero proprio dimenticato, anche perché non è che ci sia chissà quale valore architettonico… diciamo che è l’equivalente altomedievale di un rifugio atomico.

Ultimo aggiornamento: 2008-11-04 17:40

Una gita a… Dolceacqua

Ultimamente sono in debito di troppi punti-moglie. E sono punti veri, nel senso che non solo Anna ha ragione, ma ha perfettamente ragione. E devo dire che sono anche un po’ stanco di essere sempre davanti al pc: così, quando mi ha proposto di fare un weekend a Dolceacqua per fare due passi tra le colline liguri, ho prontamente accettato.
Arrivati venerdì sera a Pietra Ligure a casa di Marina, il programma prevedeva la sveglia alle 8 e la partenza alle 9:30. Diciamo che il primo obbiettivo è stato pienamente raggiunto: per il secondo, complice il tempo che non sembrava essere così bello come da previsioni del tempo, abbiamo sforato solo di un’ora e mezza. Abbondante. Ad ogni modo siamo arrivati a Dolceacqua quasi alle 12:30, e dopo aver scoperto che i parcheggi del paese erano tutti pieni – non che sia un problema, basta andare trecento metri oltre – siamo riusciti a pigliare al volo una cartina turistica al punto informazioni che stava chiudendo, e un pezzo di focaccia al pomodoro nel negozio di alimentari che aveva finito il pane. Vedendo le cose positive, però, il cielo si stava finalmente aprendo.
Guardando la cartina, la nostra idea era di prendere la mulattiera che ci avrebbe portato fino a Perinaldo. Visto però che la cartina era a scala troppo grande per capirci qualcosa, abbiamo chiesto lumi alla vigilessa locale. Nonostante indossassimo gli scarponi, la vigilessa deve aver capito che volevamo salire in auto, e così ci ha indicato una strada fortunatamente poco frequentata ma piuttosto lunga, tanto che dopo un po’ temevamo di aver sbagliato strada, visto che della chiesa dell’Addolorata non si vedeva affatto traccia. Fortunatamente però per la prima volta sono riuscito a vedere funzionare il GPS del mio telefonino (no, non funziona di nuovo, sembra proprio che voglia gli ampi spazi) e confermare così che stavamo semplicemente raddoppiando la distanza percorsa, ma ce l’avremmo fatta. E in effetti alle 14:40 siamo arrivati alla chiesa e Marina ha anche visto il cartello che indicava la mulattiera per scendere. A questo punto, però, cominciava a essere un po’ tardi. Trovato casualmente un locale e chiestigli lumi, ci siamo fermati poco innanzi, all’agriturismo La Locanda degli Ulivi, sperando di trovare ancora qualcosa da mangiare nonostante l’ora. Beh, diciamo che c’è andata molto bene, visto l’ottimo piatto di prosciutto caldo con patate, preceduto da un antipastino e seguito da caffè e limoncello, il tutto a otto euro a testa! Beh, magari è anche servito a contenere il prezzo l’avere casualmente ritrovato il coltello a serramanico che il proprietario Mario aveva perso quella mattina, ma direi di no.
Dopo esserci rifocillati, ci siamo diretti verso Dolceacqua, stavolta prendendo la mulattiera e cercando di ricordarci tutte le istruzioni che ci erano state date. In effetti ogni tanto la si perdeva di vista, però ormai eravamo degli esperti, e non abbiamo più avuto problemi se non arrivati al castello, dove una scorciatoia ci ha portati a un cancello chiuso. Rientrati sulla mulattiera, siamo arrivati dalla parte giusta del castello, speso cinque (a mio parere assolutamente immeritati) euro a testa per visitare quello che rimane del suo interno, fatto due passi per il paese addossato al castello e scesi a fare quello che secondo me era lo scopo nascosto del giro: comprare un po’ di vino (e una bottiglia di olio, che non fa mai male).
La domenica l’abbiamo passata a Pietra, con un vento che ha impedito alle fanciulle di prendere abbastanza sole, e in autostrada, con una serie di code senza nessuna ragione che fanno capire quanto sia bello prendere la macchina nei weekend. Devo però dire che l’idea di base non è stata poi così male, anche se mi sa che se torno da quelle parti cercherò di stabilire prima un itinerario. Foto? Prima o poi magari le posto.

Ultimo aggiornamento: 2008-09-29 16:37

Una gita a… Marzio

Visto che ormai il fisico non ce l’ho più, Anna mi ha convinto che dovremmo andare nei weekend a fare un po’ di camminate in montagna, almeno finché la stagione regge. In fin dei conti l’anno scorso ci eravamo anche comprati A piedi in Lombardia – vol. 1, e quindi dovevamo sfruttarlo, no?
Una mia attenta pianificazione delle distanze da percorrere mi ha convinto che il posto migliore per iniziare era l’anello piccolo di Marzio, e così domenica scorsa abbiamo sfidato la minaccia di pioggia e ci siamo avventurati verso il profondo nord dell’Italia. Marzio è un posto che se non sai che c’è non lo troverai mai: a due passi dal lago di Lugano, tanto che il mio telefonino ha deciso di passare sotto il gestore svizzero; la strada per arrivarci è sufficientemente nascosta per non essere trovata a meno che uno non abbia un GPS o un’ottima cartina, e credo che sia l’unico posto in Italia che ha pensato di costruire una terrazza panoramica in stile Ventennio per ricordare il centenario della Prima Guerra d’Indipendenza (sì, i conti non tornano, lo so). Ad ogni modo, ci sono vari percorsi che partono dal paese; oltre ai sentieri ci sono anche strade militari che permettono di non perdersi più di tanto, anche se ogni tanto ci si confonde perché improvvisamente spariscono i cartelli e le indicazioni: non garantisco che abbiamo seguito esattamente il percorso indicato nella cartina, ma abbiamo toccato tutti i punti fondamentali, e siamo anche stati gratificati dalla vista di un pezzo del lago di Lugano, oltre che da qualche goccia di pioggia che fortunatamente non ci ha bagnato più di tanto. Il posto sembra insomma interessante per ulteriori giri, anche se visto il tempo odierno mi sa che si riprenderà a tarda primavera :-(
Chi ama le foto, può trovarne qualcuna qui.

Ultimo aggiornamento: 2008-09-12 11:26

la miniera di Gambatesa

Dopo un primo tentativo andato a vuoto il martedì prima – siamo arrivati troppo tardi per l’ultimo giro – giovedì 28 agosto Anna e io, insieme all’amico Alex, siamo andati a visitare la miniera di Gambatesa, anch’essa parte del parco regionale (molto diffuso… questa non è val d’Aveto, ma val Graveglia) dell’Aveto. Tralascio i problemi geografici: siamo comunque all’interno dell’appennino genovese, e a prima vista non sembra esserci una grande differenza. A seconda vista, però, qualcosa di diverso c’è. In effetti, raggiungere la miniera è relativamente facile. Per la precisione, è ben difficile perdersi, visto che ci sono indicazioni praticamente a ogni chilometro sulla strada a partire da Lavagna; l’unico guaio è che le strade nel comune di Ne – dove si trova la miniera – sono delle provinciali relativamente strette, e che ci sono svariate cave, meta di camion i cui autisti partono dal principio che loro sono più grandi e così salgono e scendono a velocità assolutamente invereconde. Spero che a un paio di autisti sia venuta un’orchite di quelle toste.
Ad ogni modo, sopravvissuti agli incontri ravvicinati con i camionisti e superata la frazione Pian di Fieno con il ristorante Teleferica e il bar Il Minatore, si vede sulla sinistra la strada privata per la miniera e si sale al piazzale a quota 530. Da lì, una scalinata e un sentiero ti portano al punto di partenza, a quota 550. Intermezzo storico: la miniera venne iniziata nel 1876, per ricavare il manganese a partire dalla brownite. Negli anni 1930 fornì quasi l’80% della produzione italiana del metallo; dopo la guerra però l’importanza della miniera andò via via scemando, e l’Italsider, che già stava per chiuderla quando si trovò una vena importantissima, alla fine degli anni 1970 rinunciò ai diritti. La miniera venne presa in carico da una cooperativa di minatori, che altrimenti si sarebbero trovati sulla strada. Non che facciano moltissimo: la produzione attuale è di 900 tonnellate di minerale grezzo l’anno, e i quattro minatori che lavoravano a dicembre 2000 quando la miniera fu aperta al pubblico sono rimasti in due… per pensionamenti, non incidenti sul lavoro!
La visita standard alla miniera (ce ne sono anche di altri tipi, ma devono essere prenotate in anticipo) dura un’ora e mezzo circa ed è preceduta da un filmatino che dovrebbe spiegare un po’ di cose. Ma la maggior parte delle spiegazioni arrivano dalla guida (noi abbiamo avuto Sergio) che porta il gruppo di visitatori nel cuore della miniera, con un trenino rumoroso più o meno come la linea gialla della metropolitana di Milano. Oltre a dover tenere a bada un gruppetto di bambini che ha fatto la visita con noi, Sergio ha mostrato come si vede la differenza tra la roccia di base, il diaspro, e le vene di brownite, e ha fatto un rapido racconto di come le tecniche di estrazione si sono evolute dalla fine del diciannovesimo secolo (mazzetta e polvere da sparo) al secondo dopoguerra (perforatrici ad aria compressa e acqua, e dinamite). Tra l’altro, sembra che il nome della miniera derivi dall’espressione usata dai minatori, che abitavano nei paesi più a valle, quando salivano di buon passo e si dicevano l’un l’altro “su, andiamo a gamba tesa, che arriviamo prima!” I corridoi si estendono per 25 chilometri, senza travature perché il diaspro è una roccia dura; devo però confessare che quando ce l’ha fatto notare mi è venuta una punta di preoccupazione!
La visita non è certo economica (11 euro), ma credo che ci sia anche un problema di circolo vizioso. L’apertura al pubblico è stata una scommessa in una situazione oggettivamente difficile, visto che l’entroterra ligure è generalmente negletto e snobbato, e non sono così certo che nonostante l’entusiasmo dei soci della cooperativa la scommessa sia stata vinta. Bisogna però aggiungere che in questo periodo stavano sfruttando i fondi europei per rimettere a posto e ampliare l’offerta; la volontà di continuare su questa strada è insomma ancora tanta. Certo che se gli uffici turistici sulla costa del Tigullio provassero a far presente ai turisti che non è sempre necessario stiparsi nelle cosiddette spiagge locali, il 2009 potrebbe anche essere più fortunato per Gambatesa!

Ultimo aggiornamento: 2008-09-07 06:00

Una gita in… val d’Aveto

La Liguria non è solo mare e spiaggia. Occhei, diciamo che non è solo mare, visto che di spiaggia non c’è. Così giovedì 22 agosto ce ne siamo andati a fare una passeggiata in val d’Aveto, per vedere l’Appennino ligure. Siamo così arrivati a Rezzoaglio a velocità ridotta, visto che non è possibile sorpassare in nessun punto della statale, e i due vecchietti nella Panda davanti a noi non solo stavano abbondantemente sotto i sia pur bassi limiti di velocità, ma tendevano anche ad allargare le curve (cieche) a destra: inutile dire che stavo molto attento a rispettare le distanze di sicurezza. Da lì abbiamo preso la deviazione verso Magnasco e il lago delle Lame, dove abbiamo lasciato l’auto per iniziare la nostra passeggiata.
Quello delle Lame è un laghetto di origine glaciale, a 1060 metri di altezza, e segna il confine nordoccidentale del parco regionale dell’Aveto, che arriva fino ai 1701 metri del monte Aiona. Il parco è una “riserva naturale orientata”, il che dovrebbe significare che non si può costruire né modificare l’ambiente. Sicuramente hanno fatto le cose in grande, con due “percorsi didattici autoguidati”: sentieri, ma spesso sono strade sterrate, pensati per le passeggiate dei cittadini come noi. Il PNO (Percorso Naturalistico Orientato) che abbiamo preso, ha cartelli a ogni bivio, e pannelli esplicativi di cosa stavamo guardando. Non è che in realtà si riuscisse a vedere molto: il sentiero è quasi tutto in mezzo al bosco e quindi si vedono generalmente solo alberi. Si aggiunga che le parti più interessanti sono recintate, per evitare contaminazione umana: così ad esempio lo Stagno del Lagastro, che a dire il vero sembrava una semplice distesa di erba spianata. In effetti, i 2550 mq dello stagno contengono acqua solo in primavera, con lo sciogliersi delle nevi; uno deve fidarsi, come deve fidarsi che il primo pezzo di strada sterrata ci aveva fatto salire fino a quota 1330.
Da lì, dopo aver fatto tutto il giro della parte recintata, i cartelli in effetti latitano, e in compenso tutti i massi hanno i due puntoni blu simbolo dell’Alta Via dei monti liguri, che si fa praticamente tutto il Levante ligure[*]. In effetti la nostra cartina, che opportunamente avevamo con noi, diceva che i due percorsi coincidevano per un tratto: quando però abbiamo ritrovato un cartello PNO, l’abbiamo gioiosamente seguito, anche se la nostra idea originaria era di passare al PNX che appunto sarebbe partito da lì ma non era indicato. Io me ne sono accorto solo ben dopo aver passato la Pozza della Polenta – altro stagno teorico, anche se un goccio d’acqua gli arrivava – ed essere arrivati all’altra zona più protetta, quella del Lago delle Agoraie, che non si vede per nulla. Qui ho commesso il mio piu grave errore della giornata, guardando la cartina sul percorso (che era il PNX al rovescio) e dicendo ad Anna: “Beh, invece che tornare per la strada iniziale possiamo prendere questo sentiero qua. Vedi? È facile, fasta seguire la doppia riga gialla!” La tapina mi chiese solo “Ma non ci sono troppi saliscendi?” al che risposi “Bah, solo -scendi, visto che dobbiamo ritornare a quota 1000”. Ci siamo così incamminati. Il primo pezzetto era comodo, probabilmente raggiungibile anche con motocarri o simili perché c’era tutta la legna ordinatamente accatastata a ogni angolo. Dopo aver passato il torrente Rezzoaglio, però, sono iniziati i dolori. Il sentiero era indicato in maniera chiarissima, anzi fin ridondante; però non dev’essere molto usato, e in certi punti sembrava più che altro il corso di un ruscello primaverile. C’era poi uno spesso strato di foglie che non ci faceva capire se il fondo – in discesa, appunto – fosse solido, e il percoso ci è sembrato interminabile, tanto che Anna diceva che saremmo arrivati al paese sotto e avremmo dovuto aspettare la corriera per risalire. Invece, per mia fortuna, alla fine c’era il bivio che cercavo e che ci ha riportati al lago. In tutto un po’ più di due ore e mezzo di camminata, nulla di trascendentale insomma.
Al ritorno, a parte trovarmi dietro uno con la Yaris che era più giovane dei vecchietti in Panda dell’andata ma in compendo prendeva tutte le curve larghe – ma secondo me hanno un radar, perché le rare volte che non l’ha fatto poi ci siamo trovati le auto in senso opposto – siamo passati dall’abbazia di Borzone, visto che io non me la ricordavo più. Se non fosse per l’altare e l’abside barocche che mi sono rifiutato di fotografare, l’abbazia sarebbe meravigliosa. Hanno infatti tolto tutto l’intonaco settecentesco nel resto della chiesa, lasciando i muri al naturale, con la loro struttura a trifore strette riempite, in stile romanico se non addirittura preromanico. C’è questa impressione di solidità e direi quasi di grandiosità che lascia almeno in me una sensazione di pace che è difficile da trovare altrove; con gli anni sarò diventato un romanticone, mi sa.
L’unico inconveniente dei posti è che sono davvero in capo al mondo, da qualunque parte li si voglia raggiungere: peccato, perché è difficile trovare bei sentieri a quote relativamente basse.
[*] e anche il Ponente, mi dicono

Ultimo aggiornamento: 2008-09-06 06:00