Domenica 30 novembre

Non è stata una buona nottata. Anna ha tossito parecchio e quindi non riusciva a dormire, io non avevo di quei problemi ma in compenso mi sono mosso troppo nel letto smuovendo tutte le lenzuola. Fortunatamente per noi, nonostante oltre al supermercato nonostante avessimo non solo il supermercato ma anche una caserma dei vigili del fuoco dall'altra parte della strada, non ci sono state troppe sirene. O forse dormivo così profondamente da non essermene accorto...

Ad ogni modo, dopo avere fatto finta di niente e lasciato l'auto nel parcheggio dell'albergo - tanto era domenica mattina, chi poteva arrivare? - siamo tornati al Te Papa a vedere con un po' più di calma le sue sale. Il museo ha un'idea di base che è chiarissima: cercare di fare in modo da non essere per nulla controverso. Il suo motto può essere tradotto come "vogliamo che tutte le culture, quella maori e quella paheka ma anche tutte le altre etnie che sono arrivate in Nuova Zelanda, abbiano lo stesso diritto". Non è così facile farlo, però. Pensiamo solo alle guerre due secoli or sono. In questo caso occorrono degli equilibrismi politici per spiegare le lotte che ci sono state: la soluzione è stata scegliere di parlare delle persone che cercavano di unire le due popolazioni, lasciando nell'ombra i guerrafondai.
L'altra possibilità scelta dal museo è quella di giustificare le lotte come "ritorno alle origini". Abbiamo visto una esibizione temporanea iniziata proprio il giorno prima, "The Whanganui Iwi Exhibition", dove i maori spiegano ad esempio come i lavori fatti per costruire una centrale idroelettrica, con una condotta forzata che porta l'acqua via da un lago, non solo rovina il "tapu" della zona, ma dà anche problemi ambientali. E si sa che i neozelandesi sono sensibili a quest'ultima corda, almeno a parole!
La visita al museo è terminata con una lunga sosta al negozio locale, dove abbiamo comprato una serie di simpatici gadget: dalle t-shirt alla tazza da tè. E finalmente, una volta usciti, siamo riusciti a rifocillarci a un pub irlandese nei dintorni. Come al solito, la cosa migliore era la birra.

Presa la macchina per uscire da Wellington, abbiamo incontrato inizialmente molto traffico. "Molto" è una parola grossa: diciamo che rispetto a quello cui eravamo abituati era tanto, ma che avremmo fatto la firma ad averne così in tangenziale a Milano.
A proposito di auto, una digressione sulle targhe. Inizialmente i neozelandesi usavano due lettere e quattro cifre, e adesso sono passati a tre lettere e tre cifre. Ma come noi italiani, hanno avuto delle idiosincrasie col formato delle loro targhe. All'inizio erano infatti grigie su sfondo nero, e se ne vedono ancora alcune per strada. A un certo punto, hanno deciso che farle in nero su sfondo bianco le rendeva più leggibili: così a partire da NA0000 o giù di lì hanno cambiato il formato, e già che c'erano hanno permesso di avere le "vanity plates", che tra l'altro si possono vendere. Dopo un po', dimostrando un animo da Veri Informatici, hanno pensato bene che sarebbe stato utile distinguere la lettera O dallo zero, e quindi quest'ultimo si è preso una bella barretta diagonale tipo Ø. Per un po' ero convinto che la decisione fosse stata presa alla fine della O, quindi con PA0000; invece mi sono trovato una targa PAnnn0 senza barretta, e sono caduto nello sconforto, potendo solo dire che le targhe PDnnn0 avevano la barretta. Non sono insomma dei Veri Informatici!

Lo so, la digressione lascia il tempo che trova, ma garantisco che io ci sono restato un po' male. Ma lasciamo perdere, e parliamo invece della differenza tra il panorama dell'isola del sud e quello di questo pezzetto dell'isola del nord. Che dire? anche se ci sono meno montagne, le colline sono molto più tormentate; inoltre ci sono più case - naturalmente rispetto alla media a sud che tendeva a zero: non pensate a file di palazzoni o anche solo cascine! - e qualche pascolo in meno. Insomma, qualcosa che mi ricordava un poco la Toscana, tranne appunto la mancanza di case.
Anche sui pascoli c'è una piccola differenza: direi così ad occhio che ci sono meno pecore e più mucche. Ma naturalmente questa può essere solo un'impressione locale.

Abbiamo fatto una rapida sosta a Foxton, dove non sono riuscito a capire se c'era o no un museo sulla ferrovia. Di per sé, arriva lì una linea secondaria, che per la media neozelandese significa che non passa nulla; anzi probabilmente la linea è in effetti stata chiusa. Sembra però che ai tempi ci fosse una possibilità che quella potesse diventare la linea principale tra Wellington e Auckland, e un discreto numero di persone è stato così fregato ed è venuto ad abitare là. Per contrappasso, adesso il paese sembra abbastanza morto: unici segni di vita il supermercato New World e il caffé dove ci siamo fermati a prendere una tazza di tè.
Tra le varie strade possibili per arrivare a Ohakune, abbiamo scelto di fare la Highway 4, che sembrava fare un percorso più piacevole. Ricordate che la definizione neozealendese di "Highway" è più o meno simile a quella delle vecchie statali italiane, non certo a un'autostrada!

Secondo le guide, Ohakune è molto più viva in inverno, quando la gente viene qui a sciare. Effettivamente il posto è un po' un mortorio; il nostro albergo, il Powderhorn Chalet, è poi proprio in capo al mondo. Insomma, quando ci si arriva non ci si sposta certo! Bisogna però dire che il posto non è poi brutto: le stanze sono tutte in legno, e l'albergo si pregia di non avere parti in pietra o metallo. Restano un po' di scricchiolii, ma nulla di male.
Vista la situazione, ci siamo fermati al ristorante dell'albergo, che non era invece chissà cosa e soprattutto aveva un servizio di una lentezza incredibile. D'accordo non c'era molto altro da fare, ma insomma!

inizio | ieri | domani | notiziole | home page