Non è stata una buona nottata. Anna ha tossito parecchio e quindi non riusciva a dormire, io non avevo di quei problemi ma in compenso mi sono mosso troppo nel letto smuovendo tutte le lenzuola. Fortunatamente per noi, nonostante oltre al supermercato nonostante avessimo non solo il supermercato ma anche una caserma dei vigili del fuoco dall'altra parte della strada, non ci sono state troppe sirene. O forse dormivo così profondamente da non essermene accorto...
Ad ogni modo, dopo avere fatto finta di niente e lasciato l'auto nel
parcheggio dell'albergo - tanto era domenica mattina, chi poteva arrivare?
- siamo tornati al Te Papa a vedere con un po' più di calma le sue sale.
Il museo ha un'idea di base che è chiarissima: cercare di fare in modo da
non essere per nulla controverso. Il suo motto può essere tradotto come
"vogliamo che tutte le culture, quella maori e quella paheka ma anche tutte
le altre etnie che sono arrivate in Nuova Zelanda, abbiano lo stesso
diritto". Non è così facile farlo, però. Pensiamo solo alle guerre due
secoli or sono. In questo caso occorrono degli equilibrismi politici per
spiegare le lotte che ci sono state: la soluzione è stata scegliere di
parlare delle persone che cercavano di unire le due popolazioni, lasciando
nell'ombra i guerrafondai.
L'altra possibilità scelta dal museo è quella di giustificare le lotte come
"ritorno alle origini". Abbiamo visto una esibizione temporanea iniziata
proprio il giorno prima, "The Whanganui Iwi Exhibition", dove i maori
spiegano ad esempio come i lavori fatti per costruire una centrale
idroelettrica, con una condotta forzata che porta l'acqua via da un lago,
non solo rovina il "tapu" della zona, ma dà anche problemi ambientali. E si
sa che i neozelandesi sono sensibili a quest'ultima corda, almeno a
parole!
La visita al museo è terminata con una lunga sosta al negozio locale,
dove abbiamo comprato una serie di simpatici gadget: dalle t-shirt alla
tazza da tè. E finalmente, una volta usciti, siamo riusciti a rifocillarci
a un pub irlandese nei dintorni. Come al solito, la cosa migliore era la
birra.
Presa la macchina per uscire da Wellington, abbiamo incontrato
inizialmente molto traffico. "Molto" è una parola grossa: diciamo che
rispetto a quello cui eravamo abituati era tanto, ma che avremmo fatto la
firma ad averne così in tangenziale a Milano.
A proposito di auto, una digressione sulle targhe. Inizialmente i
neozelandesi usavano due lettere e quattro cifre, e adesso sono passati a
tre lettere e tre cifre. Ma come noi italiani, hanno avuto delle
idiosincrasie col formato delle loro targhe. All'inizio erano infatti grigie
su sfondo nero, e se ne vedono ancora alcune per strada. A un certo punto,
hanno deciso che farle in nero su sfondo bianco le rendeva più leggibili:
così a partire da NA0000 o giù di lì hanno cambiato il formato, e già che
c'erano hanno permesso di avere le "vanity plates", che tra l'altro si
possono vendere. Dopo un po', dimostrando un animo da Veri Informatici,
hanno pensato bene che sarebbe stato utile distinguere la lettera O dallo
zero, e quindi quest'ultimo si è preso una bella barretta diagonale tipo
Ø. Per un po' ero convinto che la decisione fosse stata presa alla
fine della O, quindi con PA0000; invece mi sono trovato una targa PAnnn0
senza barretta, e sono caduto nello sconforto, potendo solo dire che le
targhe PDnnn0 avevano la barretta. Non sono insomma dei Veri
Informatici!
Lo so, la digressione lascia il tempo che trova, ma garantisco che io
ci sono restato un po' male. Ma lasciamo perdere, e parliamo invece
della differenza tra il panorama dell'isola del sud e quello di questo
pezzetto dell'isola del nord. Che dire? anche se ci sono meno montagne, le
colline sono molto più tormentate; inoltre ci sono più case - naturalmente
rispetto alla media a sud che tendeva a zero: non pensate a file di
palazzoni o anche solo cascine! - e qualche pascolo in meno. Insomma,
qualcosa che mi ricordava un poco la Toscana, tranne appunto la mancanza di
case.
Anche sui pascoli c'è una piccola differenza: direi così ad occhio che ci
sono meno pecore e più mucche. Ma naturalmente questa può essere solo
un'impressione locale.
Abbiamo fatto una rapida sosta a Foxton, dove non sono riuscito a
capire se c'era o no un museo sulla ferrovia. Di per sé, arriva lì
una linea secondaria, che per la media neozelandese significa che non
passa nulla; anzi probabilmente la linea è in effetti stata chiusa.
Sembra però che ai tempi ci fosse una possibilità che quella
potesse diventare la linea principale tra Wellington e Auckland, e un
discreto numero di persone è stato così fregato ed è venuto ad abitare
là. Per contrappasso, adesso il paese sembra abbastanza morto: unici segni
di vita il supermercato New World e il caffé dove ci siamo fermati a
prendere una tazza di tè.
Tra le varie strade possibili per arrivare a Ohakune, abbiamo scelto di
fare la Highway 4, che sembrava fare un percorso più piacevole. Ricordate
che la definizione neozealendese di "Highway" è più o meno simile a quella
delle vecchie statali italiane, non certo a un'autostrada!
Secondo le guide, Ohakune è molto più viva in inverno, quando la gente
viene qui a sciare. Effettivamente il posto è un po' un mortorio;
il nostro albergo, il Powderhorn Chalet, è poi proprio in capo al mondo.
Insomma, quando ci si arriva non ci si sposta certo! Bisogna però dire che
il posto non è poi brutto: le stanze sono tutte in legno, e l'albergo si
pregia di non avere parti in pietra o metallo. Restano un po' di
scricchiolii, ma nulla di male.
Vista la situazione, ci siamo fermati al ristorante dell'albergo, che non
era invece chissà cosa e soprattutto aveva un servizio di una lentezza
incredibile. D'accordo non c'era molto altro da fare, ma insomma!