Il programma per la nostra giornata aucklandese (aucklandica? aucklandina?) prevedeva la visita di due "attrazioni locali". Ci siamo così incamminati dopo una sana colazione verso l'Auckland War Museum. La strada per arrivare al museo è tutta ondulata come capita spessissimo qua, secondo il sistema già visto anche a San Francisco. Abbiamo attraversato l'Albert Park, piccino ma proprio a downtown; l'università locale, che aveva l'aria molto più simpatica di Città Studi o del Politecnico di Torino; e infine l'Auckland Domain, un bellissimo parco vero polmone della città e naturalmente tenuto benissimo.
Visto da fuori, l'Auckland War Museum
non è che faccia una grande impressione:
l'interno però è tutta un'altra cosa. Non
lasciatevi ingannare dal nome: c'è sì una
parte dell'edificio con reperti relativi alla guerra come vista dalla
parte della Nuova Zelanda, ma questa occupa
il secondo piano e noi non ci siamo neppure
passati. Il piano terreno è dedicato all'arte
non solo locale ma generalmente della zona del Pacifico,
mentre il primo piano contiene informazioni
su geologia, flora e fauna neozelandesi.
L'ingresso è formalmente libero: peccato che chiedano una donazione
obbligatoriamente volontaria di 5$. Mi sembrerebbe più onesto far pagare
direttamente il biglietto! Nel nostro caso non c'era problema, però,
perchè avevamo previsto di vedere l'esibizione culturale maori per cui
dovevamo sganciare 15$ a testa, ma ci veniva benignamente risparmiato
di dovere ancora oblare. Ma non parliamo solo male del museo: una cosa
che bisogna dire a suo favore è che ti invitano tranquillamente a fare
fotografie.
La sezione relativa alle civiltà del Pacifico
è stata per me un'autentica sorpresa. Un
conto è infatti sapere che pittori del secolo scorso come Chagall
si erano ispirati a quell'arte, altra cosa è vedere
certe statue perfetti esempi di arte astratta e
oseri quasi dire razionalistica. Non mi sarei
affatto stupito se mi avessero detto che
una statua di dea che mi ha particolarmente colpito fosse stata
intagliata nel 1960.
In compenso, devo dire che l'"evento culturale"
con le musiche e danze maori è stato
davvero deludente. Non mi aspettavo chissà
cosa, è vero: anche se all'interno di un museo,
questo è pur sempre uno spettacolo, e la gente paga "per vedere lo show".
Di per sé, vedere
il tizio che presentava il tutto fare scenette
quasi da avanspettacolo non mi ha certo
infastidito, anzi mi ha dato paradossalmente
un'idea di maggior realismo. Ma vedere che dopo
il primo canto è comparsa una chitarra
e ascoltare canzoni che a noi facevano più che altro ricordare
i filmacci americani anni '50 ambientati nelle Hawaii...
beh, quello non l'ho proprio buttato giù. E
a questo punto mi sorge anche un dubbio
sulle danze che sono state eseguite.
Vorrei fare una precisazione. Sono certo che
la musica maori oggi è diversa da
quella di duecento anni fa: ci mancherebbe
ancora. Non ho nulla in contrario alle
contaminazioni. Ma almeno ditelo subito!
A parte questo incidente, devo dire che sia a
me che ad Anna questo museo è piaciuto più
del Te Papa di Wellington. Forse dovremmo
tenere conto della diversa prospettiva di nascita dei due musei;
ma il risultato cambia poco. Anche il primo
piano, cui purtroppo abbiamo dato un'occhiata
rapida soprattutto per capire una volta per
tutte com'è fatta la foglia del kauri, era carino;
diciamo che potevano risparmiarsi il pinguinone
che sembrava essere il compagno preferito di
foto per i giapponesi, ma non si può pretendere
tutto. Ah, anche se il kauri è della famiglia dei
pini, la foglia è più lanceolata, non aghiforme.
Si era fatto tardi: usciti, ci siamo infilati in una spuntineria
dove ci siamo mangiati
un kebab, e mi sono anche vinto una
bottiglietta di coca cola - avevo una possibilità su
sei, diceva la pubblicità. Sono fortunato, vero? Abbiamo poi percorso
Parnell Road che le nostre guide definivano trendy, per
vedere un po' di vetrine e fare qualche acquisto. In effetti la passeggiata
è stata piacevole, nonostante la mia idiosincrasia per queste cose.
Ho evitato di andare a vedere sia la nuova cattedrale anglicana
da poco terminata che la vecchia piccola
cattedrale in legno, che hanno spostato
all'ombra della nuova. Mi dispiace solo per
l'organo a canne della chiesa, ma tanto non avrei potuto
vederlo da vicino.
Ho parlato a sproposito di ombra: in effetti
il cielo era coperto e scendeva a volte qualche
goccia di pioggia. Iniziamo comunque a
incamminarci verso il Kelly Tarlton's, che
secondo la mappa è a quattro chilometri di distanza
sulla Tamaki Drive. Peccato che inizi a piovere
sempre più forte, e noi avevamo lasciato in
albergo le giacche a vento. Io poi ero in
maglietta e bermuda! Non faceva in realtà freddo, ma mi stavo bagnando come
un pulcino.
A un certo punto ci prendiamo
una pausa di riflessione, attraversando la strada
perché dall'altro lato c'era almeno una
fermata del bus con pensilina. Visto che da quella posizione
avevamo una perfetta visione della strada che
faceva una mezza curva sulla baia, decidiamo di
starcene lì a vedere quando arriva un bus nella nostra direzione. Il
primo ci frega, perché svolta prima di arrivare da noi e ci fa insomma fare
un doppio attraversamento di strada per ritornare alla nostra pensilina;
il secondo invece ci porta finalmente a destinazione. I numeri di linea
indicati nella Lonely Planet sono del tutto errati, tra l'altro.
Usciti dalla visita, continuava a piovicchiare, e quindi siamo rimasti
sotto una pensilina. Peccato che i bus arrivino a una velocità incredibile,
e non rallentino a verificare se c'è qualche poveretto in attesa. Il primo
ce lo siamo giocati così, e il secondo siamo riusciti a fermarlo per un
pelo...
Arrivati verso downtown, verifichiamo di persona come il traffico
in città sia tremendo, molto peggio che da noi: dopo la tranquillità delle
ultime settimane, poi, siamo rimasti un po' sbalestrati. È stato ancora
peggio vedere che in pieno centro i negozi, esclusi ovviamente quelli di
souvenir, chiudono tutti tra le 17:30 e le 18. Insomma, ce ne siamo tornati
in albergo a farci un bel tè caldo per riprenderci dalla bagnata.
Per la cena, avevamo adocchiato sulle guide un ristorante giapponese
davanti al porto. Ci siamo avviati tranquilli, ma una volta arrivati - e
dire che erano le 20:30, insomma tarduccio per il paese - era pieno.
Inoltre bisogna dire che il pavimento non dava l'aria di essere lindo.
Siamo rimasti qualche minuto in attesa, e poi quando la tipa ci ha detto
che non sapeva quando si sarebbe liberato un tavolo siamo subito scappati.
Il guaio è che in un attacco di sicurezza non ci eravamo portati dietro le
guide, e una rapida scorsa ai locali della zona non ha dato alcuna
ispirazione. Alla fine ho recuperato dai recessi della mia memoria un
indirizzo a Victoria Market, cioè dall'altra parte del centro; ci siamo
così diretti là, pensando che alla peggio il supermercato era ancora
aperto. Invece siamo riusciti a trovare il Sake Bar Rikka che ci è anche
piaciuto. Ci sono stati momenti buffi, come quando ho provato a chiedere
una ciotola di riso al posto della zuppa della mia combinazione, visto che
costavano lo stesso. La tipa,
da vera giapponese, ha risposto con un sì che significava "no". Poi ritorna
richiedendomi cosa volevo, e aggiunge "devo chiedere". Si mette a
parlare in cucina. Non torna. Alla fine la ciotola di riso è arrivata; non
so se l'ho pagata a parte, visto che il conto era comunque abbordabile e
non erano i due dollari a cambiarlo!