Lunedì 8 dicembre

Il programma per la nostra giornata aucklandese (aucklandica? aucklandina?) prevedeva la visita di due "attrazioni locali". Ci siamo così incamminati dopo una sana colazione verso l'Auckland War Museum. La strada per arrivare al museo è tutta ondulata come capita spessissimo qua, secondo il sistema già visto anche a San Francisco. Abbiamo attraversato l'Albert Park, piccino ma proprio a downtown; l'università locale, che aveva l'aria molto più simpatica di Città Studi o del Politecnico di Torino; e infine l'Auckland Domain, un bellissimo parco vero polmone della città e naturalmente tenuto benissimo.

Visto da fuori, l'Auckland War Museum non è che faccia una grande impressione: l'interno però è tutta un'altra cosa. Non lasciatevi ingannare dal nome: c'è sì una parte dell'edificio con reperti relativi alla guerra come vista dalla parte della Nuova Zelanda, ma questa occupa il secondo piano e noi non ci siamo neppure passati. Il piano terreno è dedicato all'arte non solo locale ma generalmente della zona del Pacifico, mentre il primo piano contiene informazioni su geologia, flora e fauna neozelandesi.
L'ingresso è formalmente libero: peccato che chiedano una donazione obbligatoriamente volontaria di 5$. Mi sembrerebbe più onesto far pagare direttamente il biglietto! Nel nostro caso non c'era problema, però, perchè avevamo previsto di vedere l'esibizione culturale maori per cui dovevamo sganciare 15$ a testa, ma ci veniva benignamente risparmiato di dovere ancora oblare. Ma non parliamo solo male del museo: una cosa che bisogna dire a suo favore è che ti invitano tranquillamente a fare fotografie.

La sezione relativa alle civiltà del Pacifico è stata per me un'autentica sorpresa. Un conto è infatti sapere che pittori del secolo scorso come Chagall si erano ispirati a quell'arte, altra cosa è vedere certe statue perfetti esempi di arte astratta e oseri quasi dire razionalistica. Non mi sarei affatto stupito se mi avessero detto che una statua di dea che mi ha particolarmente colpito fosse stata intagliata nel 1960.
In compenso, devo dire che l'"evento culturale" con le musiche e danze maori è stato davvero deludente. Non mi aspettavo chissà cosa, è vero: anche se all'interno di un museo, questo è pur sempre uno spettacolo, e la gente paga "per vedere lo show". Di per sé, vedere il tizio che presentava il tutto fare scenette quasi da avanspettacolo non mi ha certo infastidito, anzi mi ha dato paradossalmente un'idea di maggior realismo. Ma vedere che dopo il primo canto è comparsa una chitarra e ascoltare canzoni che a noi facevano più che altro ricordare i filmacci americani anni '50 ambientati nelle Hawaii... beh, quello non l'ho proprio buttato giù. E a questo punto mi sorge anche un dubbio sulle danze che sono state eseguite.
Vorrei fare una precisazione. Sono certo che la musica maori oggi è diversa da quella di duecento anni fa: ci mancherebbe ancora. Non ho nulla in contrario alle contaminazioni. Ma almeno ditelo subito!
A parte questo incidente, devo dire che sia a me che ad Anna questo museo è piaciuto più del Te Papa di Wellington. Forse dovremmo tenere conto della diversa prospettiva di nascita dei due musei; ma il risultato cambia poco. Anche il primo piano, cui purtroppo abbiamo dato un'occhiata rapida soprattutto per capire una volta per tutte com'è fatta la foglia del kauri, era carino; diciamo che potevano risparmiarsi il pinguinone che sembrava essere il compagno preferito di foto per i giapponesi, ma non si può pretendere tutto. Ah, anche se il kauri è della famiglia dei pini, la foglia è più lanceolata, non aghiforme.

Si era fatto tardi: usciti, ci siamo infilati in una spuntineria dove ci siamo mangiati un kebab, e mi sono anche vinto una bottiglietta di coca cola - avevo una possibilità su sei, diceva la pubblicità. Sono fortunato, vero? Abbiamo poi percorso Parnell Road che le nostre guide definivano trendy, per vedere un po' di vetrine e fare qualche acquisto. In effetti la passeggiata è stata piacevole, nonostante la mia idiosincrasia per queste cose. Ho evitato di andare a vedere sia la nuova cattedrale anglicana da poco terminata che la vecchia piccola cattedrale in legno, che hanno spostato all'ombra della nuova. Mi dispiace solo per l'organo a canne della chiesa, ma tanto non avrei potuto vederlo da vicino.
Ho parlato a sproposito di ombra: in effetti il cielo era coperto e scendeva a volte qualche goccia di pioggia. Iniziamo comunque a incamminarci verso il Kelly Tarlton's, che secondo la mappa è a quattro chilometri di distanza sulla Tamaki Drive. Peccato che inizi a piovere sempre più forte, e noi avevamo lasciato in albergo le giacche a vento. Io poi ero in maglietta e bermuda! Non faceva in realtà freddo, ma mi stavo bagnando come un pulcino.
A un certo punto ci prendiamo una pausa di riflessione, attraversando la strada perché dall'altro lato c'era almeno una fermata del bus con pensilina. Visto che da quella posizione avevamo una perfetta visione della strada che faceva una mezza curva sulla baia, decidiamo di starcene lì a vedere quando arriva un bus nella nostra direzione. Il primo ci frega, perché svolta prima di arrivare da noi e ci fa insomma fare un doppio attraversamento di strada per ritornare alla nostra pensilina; il secondo invece ci porta finalmente a destinazione. I numeri di linea indicati nella Lonely Planet sono del tutto errati, tra l'altro.

Il Kelly Tarlton's, anche se un po' caruccio (25 dollari a testa) è davvero molto bello. La prima parte è dedicata all'Antartico, con una ricostruzione della base di Scott compresa di alcune lattine originali di cibo e un giro su di un gatto delle nevi per vedere i pinguini che stanno in una sezione immagino a temperatura adatta a loro. Nella seconda c'è l'acquario, con un percorso dove ci si mette in un nastro trasportatore come quello delle valigie dell'aeroporto e si passa a guardare i pesci. Nell'immancabile sala dove si vendono i gadget scopriamo che il signor Tarlton è morto per infarto mentre stava per terminare il museo, che è stato costruito a partire dalle vecchie vasche per l'acquedotto di Auckland.

Usciti dalla visita, continuava a piovicchiare, e quindi siamo rimasti sotto una pensilina. Peccato che i bus arrivino a una velocità incredibile, e non rallentino a verificare se c'è qualche poveretto in attesa. Il primo ce lo siamo giocati così, e il secondo siamo riusciti a fermarlo per un pelo...
Arrivati verso downtown, verifichiamo di persona come il traffico in città sia tremendo, molto peggio che da noi: dopo la tranquillità delle ultime settimane, poi, siamo rimasti un po' sbalestrati. È stato ancora peggio vedere che in pieno centro i negozi, esclusi ovviamente quelli di souvenir, chiudono tutti tra le 17:30 e le 18. Insomma, ce ne siamo tornati in albergo a farci un bel tè caldo per riprenderci dalla bagnata.

Per la cena, avevamo adocchiato sulle guide un ristorante giapponese davanti al porto. Ci siamo avviati tranquilli, ma una volta arrivati - e dire che erano le 20:30, insomma tarduccio per il paese - era pieno. Inoltre bisogna dire che il pavimento non dava l'aria di essere lindo. Siamo rimasti qualche minuto in attesa, e poi quando la tipa ci ha detto che non sapeva quando si sarebbe liberato un tavolo siamo subito scappati.
Il guaio è che in un attacco di sicurezza non ci eravamo portati dietro le guide, e una rapida scorsa ai locali della zona non ha dato alcuna ispirazione. Alla fine ho recuperato dai recessi della mia memoria un indirizzo a Victoria Market, cioè dall'altra parte del centro; ci siamo così diretti là, pensando che alla peggio il supermercato era ancora aperto. Invece siamo riusciti a trovare il Sake Bar Rikka che ci è anche piaciuto. Ci sono stati momenti buffi, come quando ho provato a chiedere una ciotola di riso al posto della zuppa della mia combinazione, visto che costavano lo stesso. La tipa, da vera giapponese, ha risposto con un sì che significava "no". Poi ritorna richiedendomi cosa volevo, e aggiunge "devo chiedere". Si mette a parlare in cucina. Non torna. Alla fine la ciotola di riso è arrivata; non so se l'ho pagata a parte, visto che il conto era comunque abbordabile e non erano i due dollari a cambiarlo!

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