modulo
Credo che l'aritmetica modulare sia una delle ragioni principali per fare odiare gli orologi, soprattutto quelli analogici: almeno non sento mai nessuno fare esempi tipo “tre ore dopo le 23 sono le 2, perché si sta lavorando modulo 24”. Confesso che a me piace trovare esempi di uso della matematica nel mondo reale, ma mi sono stufato di sentire sempre parlare di “aritmetica dell'orologio” e gradirei qualche altro esempio… chessò, l'aritmetica delle vie di Torino, con le curve a destra che si fanno modulo 4. Ma qual è l'origine della parola?
Non ci crederete, ma è la stessa di “moda”, di cui ho già scritto: il termine latino modus, -i che come forse ricordate significa “misura”. In realtà la parola che si usa è però il diminutivo modulus, -i, che chiaramente significa “piccola (unità di) misura”. In realtà non so esattamente se sia una misura piccola oppure no: però in italiano la prima occorrenza della parola “modulo”, almeno secondo il DELI, è addirittura precedente a Dante… o forse no. Cito: «‘misura del raggio della colonna, assunta come unità di grandezza alla quale si riferiscono le dimensioni delle altre parti dell'edificio’ (sec. XIV, Guido delle Colonne volgar.)». Ora il Guido delle Colonne che ho trovato io è del XIII secolo ed è un poeta, non certo un architetto. Va a sapere cosa volevano dire Cortellazzo e Zolli. Sicuramente però il significato architettonico è una costante nei secoli: basti pensare alModulor di Le Corbusier, o banalmente agli onnipresenti moduli componibili. Ma i primi usi della parola “modulo” in altri contesti riservano delle belle sorprese. Indovinate chi parla di modulo come “unità di misura dell'acqua corrente o concessa a scopo irriguo o industriale”? Camillo Benso, il Cavour. Il modulo da compilare, la misura insomma secondo la quale i documenti devono essere redatti e completati negli spazi prefissati, è sì nato come parola nella Repubblica Cisalpina (si sa, i francesi hanno portato in Italia anche la burocrazia, che non per nulla deriva da bureau), però al femminile (o al neutro plurale): “modula”. Il modulo come intendiamo noi, cioè uno schema prestampato da compilare volta per volta, viene usato per la prima volta nel 1862 da Giosuè Carducci, che era fresco di nomina alla cattedra di Eloquenza Italiana all'università di Bologna. Vorrà dire qualcosa?
Insomma, a parte il significato vero e proprio di misura che si è in parte perso, la parola modulo in italiano arriva all'inizio del XIX secolo. Ma anche in matematica il termine è coevo, ed è usato per la prima volta nella lingua… latina. È stato Carl Friedrich Gauss (non fatemelo scrivere Gauß… sono le mie manie di traslitterazione arcaica, un po' come Mao Tse-Tung invece che Mao Zedong) a riscrivere da zero la teoria delle congruenze nelle sue Disquisitiones Arithmeticae, inventando il simbolo ≡; l'abbreviazione “(mod. n)”; e la parola “modulo”. E visto che le aveva scritte in latino, ha usato la parola latina. “Modulo”, in effetti, è un ablativo latino, e letteralmente quindi significa “con la misura”. Devo però aggiungere per completezza che sono andato a vedere il testo originale, e Gauss a pagina 2 non usa un ablativo ma bensì un accusativo: «E.g. −9 et +16 secundum modulum 5 sunt congrui» (grassetto mio). Chi abbia deciso di passare all'ablativo mi è ignoto: spero solo non sia Peano
In definitiva, per una volta la colpa di essersi allontanati dall'originale non è dei matematici ma del resto del mondo!
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