La parola numero è sicuramente matematica, probabilmente una delle più matematiche che possano venire in mente, e almeno a primo acchito non si direbbe certo che venga usata in altro modo: no, non vale pensare alla “numero uno” di zio Paperone, che evidentemente è la prima moneta da lui guadagnata e quindi ha pieno diritto aritmetico. Ma non è proprio così!
Innanzitutto la parola “numero” arriva dal latino numerus, i, che significa… numero. Notate che il greco non c'entra, visto che la parola corrispondente è arithmós (vi ricorda qualcosa?). E da dove arriva la parola latina, allora? Non c'è un'ipotesi accettata da tutti, ma è abbastanza gettonata la derivazione dalla radice indoeuropea nem-, che significa “distribuire, assegnare, devolvere”; il concetto di numero potrebbe appunto giungere dal vedere che era qualcosa che misuri la dimensione di una distribuzione. Tra l'altro, per i latini il plurale “numeri” significava non solo aritmetica ma anche astronomia, la scienza che usava più numeri (e infatti sant'Agostino ce l'aveva con i “mathematici” nel senso di astrologi, che invece che fidarsi di Dio guardavano il futuro nelle stelle).
In italiano la parola è entrata praticamente subio, visto che la usa già Brunetto Latini nel XIII secolo. Stavolta insomma non è stato Dante a vincere la gara, per semplici ragioni cronologiche. Per la cronaca, però, il sommo poetà usò il termine, nel senso di “quantità indeterminata”, prima della Commedia: è infatti attestato nel Convivio. Con questo possiamo chiudere la parte prettamente matematica della parola. Per il resto? IL DELI dà dovizia di esempi, oltre a quei due che ho appena presentato.
Innanzitutto la parola novero, e quindi per esempio “annoverare”, deriva anch'essa da numerus, e ci arriva anch'essa all'inizio del Trecento. Ma qui andiamo fuori strada: restiamo alla parola originale. I grammatici si sono presto appropriati della parola per i fatti loro, con il “numero singolare”, il “numero plurale” e per chi vuole fare le cose in grande il “numero duale”. Leon Battista Alberti ne parla infatti già nel 1454. Il numero di una rivista (nel senso di giornale) appare per la prima volta nel 1810, con Ugo Foscolo; il numero di una rivista (nel senso di parte specifica di uno spettacolo di varietà) è registrato per la prima volta nel 1905, nel dizionario del Panzini. Forse un tempo c'era una qualche logica nel dire che nello spettacolo si contavano le varie parti, e quindi si dava loro un numero: ma ora, se un calciatore fa un bel numero durante una partita, non credo che nemmeno su Facebook ci sia la galleria delle sue migliori azioni, ciascuna con il suo bel numero.
Infine, perché si “danno i numeri” quando si è pazzi? Semplice: i numeri che si danno dovrebbero essere quelli del lotto, come spiega il Fanfani (no, non Amintore!) nel suo dizionario del 1865. Già allora però il significato si stava spostando: i numeri del lotto ci venivano dati in sogno da qualcuno che chi è caro. Però il buonanima del nonno spesso non ci diceva i numeri belli chiari, ma ce li dava in modo confuso: da qui si è passati a dire che “dà i numeri” chiunque dicesse cose un po' strane e non immediatamente chiare, e il passaggio a chi probabilmente ha qualche rotella fuori posto diventa immediato. Possiamo al più chiederci se tutto questo è correlato con la nomea di persone un po' fuori di testa che i matematici hanno!
Un'ultima curiosità matematica: perché per indicare una variabile intera viene generalmente usata la lettera n? Anche se potrebbe sembrare logico, non c'entra “N.N.”, che è un'abbreviazione del latino “nomen nescio” (non conosco il nome); la lettera è semplicemente la prima di “numero”.
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