È vero, queste ultime settimane sono state molto più pesanti di quanto avessi potuto immaginare: stare per diventare genitori è un bel cambiamento, e sì che di cambiamenti epocali ho una bella esperienza! Eppure mi sembra impossibile che stessi per dimenticarmi che oggi, 22 settembre, sono due anni precisi dal giorno in cui tutta questa storia incominciò.
Ero a casa e stavo preparandomi cena, quando Marco mi telefonò col suo solito tono strafottente: “Ehi, testa d’uovo, vieni a vedere che cosa ha trovato stavolta il tuo amico!”. Beh, diciamocela tutta: dire che era mio amico era un bel po’ esagerato. Sì, avevamo fatto tutte le scuole insieme, dalla prima elementare fino alla fine del liceo. Sì, eravamo inseparabili. Ma la nostra relazione era più che altro utilitaristica. Anche da ragazzo ero un mingherlino, mentre lui era sempre stato grande e grosso; io mi avvicinai a lui per evitare che gli altri bambini mi picchiassero, e in cambio lui si faceva passare i compiti, anche perché a scuola non era certo una cima. Insomma, in comune avevamo ben poco, ma alla fine io ero per tutti l’amico di Marco e lui l’amico mio.
Quella sera non avevo nulla di importante da fare, e le mie abilità culinarie a quei tempi si limitavano a selezionare il programma del forno a microonde: così presi l’auto e andai a casa sua. Marco mi aprì e subito mi mostrò un telecomando: lungo, stretto, con una quarantina di tasti etichettati con dei simboli buffi.
— “Hai visto che cosa ho vinto? Non ti pare carino?”
Il mio sguardo doveva essere stato davvero perplesso.
— “È un coso davvero speciale! Guarda che faccio a quel vaso!”
Puntò il telecomando verso il vaso, una di quelle robacce kitsch di colore giallo canarino che erano la sua idea di accessorio di design; si grattò la testa, come se cercasse di ricordarsi qualcosa; infine ridacchiò e schiacciò quattro pulsanti in successione. Mi sembrò di notare una specie di tremolio, come quando d’estate il calore sale dal terreno. Il tremolio durò meno di un secondo; poi tutto tornò come prima. No, non esattamente tutto. Strabuzzai gli occhi: il vaso era sempre lì, sempre kitsch, ma indubbiamente non giallo canarino ma di un azzurro elettrico se possibile ancora peggiore.
Lo guardai stupefatto.
— “Come hai fatto? È un gioco di prestigio?”
— “Ma che ti viene in mente? È stato il telecomando! Senti qua: ieri sera ero andato alla nostra birreria a bermi qualcosa, quando arriva questo tipo strano giallo come un cinese con l’itterizia. Mi ha detto che arrivava da un posto molto lontano ed era venuto qui perché ero stato scelto per avere un regalo, proprio come in televisione. Ha tirato fuori questo telecomando e mi ha fatto vedere come se puntavo a una cosa e schiacciavo i tasti nell’ordine giusto potevo cambiare colore a quella cosa. Era un tipo buffo, e parlava come un libro stampato, peggio di te: mi ha anche detto che era un oggetto artistico... no, quartistico, e che avrei trovato le altre istruzioni puntandomi addosso il telecomando e schiacciando tre volte di fila questo pulsantone. Ho preso in mano il telecomando, l’ho guardato un attimo, e il tipo era sparito. Gli altri amici del bar mi han detto che non si erano accorti di nulla: ho cominciato a dire che mi stavano prendendo per i fondelli, c’è stata una rissa e il barista mi ha sbattuto fuori. Ma non ero poi così ubriaco, e quel cazzo di telecomando ora ce l’ho ben qui con me, no? Solo che non so cosa farci!”
—”Ma quel tipo non ti aveva detto che c’erano le istruzioni?”
— “Istruzioni? Macché! Ho schiacciato il pulsante e mi è arrivato solo un mal di testa come la peggiore sbornia! Sentitelo anche tu, testa d’uovo!”
Prima che potessi ribattere, puntò il telecomando contro di me e schiacciò il tasto. Non ci sono parole per spiegare cosa mi successe: fu come un’illuminazione zen, un lampo in cui io e il telecomando eravamo una cosa sola. Purtroppo durò un solo istante: poi la consapevolezza svanì, e mi restarono in testa solo mille frammenti di ricordi, oltre a un dolore lancinante alle tempie. Marco sghignazzò: “Visto, testa d’uovo? Mal di testa e basta, altro che istruzioni!”
Mentre il dolore mi stava lentamente passando, alcuni dei frammenti si misero insieme, e mi balenò un’idea. Chiesi allora a Marco se mi poteva prestare il telecomando per qualche giorno.
— “Certo che sì! Basta che me lo riporti la settimana prossima, che ci ho un appuntamento con una tipa che si diverte tantissimo a iniziare con questo tipo di giochetti prima di quelli erotici!”
Assentii, tornai faticosamente a casa, e il mattino dopo mi misi a studiare il telecomando. Provai di nuovo a puntare il telecomando verso di me schiacciando il pulsantone, ma senza nessun risultato: a quanto pare, il cervello di una persona poteva essere attivato una sola volta. L’illuminazione della sera prima mi aveva però fatto capire che Marco aveva ricevuto un dispositivo quantistico (“quartistico”... haha!): la dimostrazione pratica, tra l’altro, che l’interpretazione del multiverso era reale, e non un semplice artificio matematico per far tornare i conti dei paradossi della teoria dei quanti. Avete presente il gatto di Schrödinger, quello che è contemporaneamente vivo e morto fino al momento in cui non apriamo la scatola dove era stato messo? La verità è un altra. Se si potesse fare davvero questo esperimento, l’universo si sdoppierebbe: ce ne sarebbe uno in cui il gatto è morto (e gli ambientalisti ci stanno saltando addosso), e un altro in cui invece è vivo (e presumibilmente molto arrabbiato per essere rimasto chiuso in una scatola). Col passare del tempo si creano pertanto innumerevoli universi. Essi in genere nascono infinitamente vicini tra loro rispetto a una direzione non meglio identificata ma sicuramente diversa dalle usuali coordinate spaziotemporali, salvo poi eventualmente allontanarsi da loro. Il telecomando permetteva di spostarsi in un universo dove l’unica differenza era l’essenza dell’oggetto su cui veniva puntato.
A furia di esperimenti, cercando disperatamente di ricordare una parte quanto maggiore possibile dell’illuminazione che avevo ricevuto a casa di Marco, arrivai a formulare una regola pratica. Più tasti si schiacciavano, maggiori erano le differenze tra l’universo di partenza e quello di arrivo; inoltre il telecomando si scaldava tanto più quanto maggiori erano le differenze tra gli universi, probabilmente come sottoprodotto di chissà quale reazione permetteva di ottenere questo spostamento. Mi chiedo ancora oggi quali siano le menti degli alieni che avevano creato questo marchingegno – non poteva essere nulla di fattura terrestre – non tanto per creare un marchingegno simile, quanto per poter assorbire tutta la conoscenza del “libretto di istruzioni” in un solo istante, e presumibilmente senza mal di testa, o di quella cosa che avranno al posto della testa.
Riuscii comunque a impratichirmi rapidamente delle operazioni di base. Dopo gli oggetti, iniziai allora a puntare il telecomando sugli esseri viventi: prima piante, poi animali. La differenza maggiore sembrava essere il calore generato dal telecomando: trasformare un gattino nero in uno bianco era probabilmente molto più dispendioso che tramutare una scatola nera delle stesse dimensioni in una bianca, anche se non saprei come associare il concetto di “dispendioso” a un oggetto che non sembrava aver bisogno di una fonte di energia.
Decisi alla fine di fare una sperimentazione su me stesso: in fin dei conti non mi sarebbe dovuto succedere nulla di più che un altro enorme mal di testa. Preparai l’esperimento con la massima cura. Per sicurezza scrissi tutte le istruzioni d’uso che avevo scoperto in un quadernetto (niente file, non si sa mai…) sulla cui copertina avevo scritto “LEGGIMI!”, e che misi ben lontano dalla portata del telecomando; in questo modo sarei sempre potuto ripartire da capo, se il mio alter ego avesse perso la memoria. Tremando un po’, puntai il telecomando verso di me digitai i comandi che avevo previsto mi avrebbero fatto guadagnare qualche etto di muscoli, mentre tenevo il telecomando puntato verso di me. Vidi il resto del mondo tremolare, poi nulla. Sembrava proprio non fosse successo nulla; poi osservai la mia pancia e vidi dei favolosi addominali a tartaruga. Logicamente la cosa non aveva molto senso: il mio corpo era cambiato, ma la mia mente era ancora quella del “vecchio” universo. Ma si sa che la teoria dei quanti è tutta un paradosso: insomma non feci troppo caso alla cosa, e quello fu il mio primo grande errore.
Quando gli raccontai delle mie scoperte, Marco fu entusiasta. Come prima cosa, mi intimò di fargli ricrescere i capelli, che gli si stavano diradando. Fortuna che avevo rafforzato il mio fisico, perché solo qualche giorno prima sarei stato buttato a terra dalla gioiosa pacca sulla schiena che mi diede per festeggiare la sua nuova zazzera. Ma la mia sorpresa fu massima qualche ora dopo. Eravamo andati alla solita birreria; lui stava chiacchierando di donne, io giocherellavo sbadatamente con il telecomando che ci eravamo portati dietro, e sovrappensiero tramutai il suo maglione in un gilet rosa shocking. Marco sembrò quasi risvegliarsi da chissà quali pensieri, e tutt’a un tratto mi disse: “Ma com’è che non mi hai ancora detto nulla del mio bellissimo gilet nuovo?” Non solo non si era accorto di nulla, ma anzi credeva di aver comprato lui il gilet. Eppure negli esperimenti su me stesso io non avevo queste memorie artificiali del passato. Come poteva essere? Mi ci volle tutta la notte per fare un’ipotesi su cos’era successo. Come sapete, uno degli assunti della teoria dei quanti afferma che l’osservatore influenza gli eventi; e a quanto pare è proprio così. Se uno osservava il telecomando puntato su di sé sapendo cos’era e a cosa serviva, la sua mente non si spostava nell’altro universo; in un certo senso era tutto l’universo ad essere nuovo. Se invece non lo osservava, non succedeva nulla di tutto questo: il Marco col gilet rosa shocking era effettivamente diverso dal mio amico originale.
Fu così che congegnai un piano che definire diabolico era poco. La prima fase fu la più semplice da eseguire. Un paio di giorni dopo tornai da Marco, presi il telecomando, lo puntai di nascosto contro di lui e digitai la combinazione per sostituirlo con un suo alter ego che non aveva mai sentito parlare di esso. Mi venne un colpo quando vide il telecomando che scottava tra le mie mani e sbottò: “Ma che ci fai con quello?”; mi rilassai solo quando soggiunse “Te lo sei portato da casa per vedere se funziona con la mia tivù 64 pollici?” Il segreto del telecomando era ormai solo mio; ora potevo dedicarmi con tranquillità ad Ale. L’avevo conosciuta l’anno prima, e avevamo iniziato a vederci ogni tanto per andare al cinema o a bere qualcosa. Mi ero subito innamorato di lei, per la sua risata, la sua intelligenza ma soprattutto per la disinvoltura con cui portava la sua quarta di tette; non avevo però mai osato confessarglielo, aspettando sempre il momento giusto. Purtroppo un giorno Ale ed io andammo in pizzeria insieme a Marco, il giorno dopo lei mi chiese il suo numero di telefono e per qualche mese i due furono inseparabili, salvo poi lasciarsi burrascosamente.
Fare un secondo passaggio di telecomando su Marco, sostituendolo con uno che non aveva mai conosciuto Ale fu banale; il telecomando rimase appena tiepido, segno che per lui quella storia era già bell’e dimenticata. Fare la stessa cosa con lei fu parecchio più difficile, non solo perché probabilmente si era davvero innamorata del mio amico ma anche perché dovetti fare letteralmente i salti mortali per convincerla a rivederci: lei ce l’aveva ancora con me per averglielo fatto conoscere. Ma una volta che nel mio universo si trovava un’Ale che non aveva conosciuto Marco le cose furono molto più semplici. Vi sembrerà incredibile, ma non dovetti neppure usare il telecomando; ero diventato probabilmente diventato molto più sicuro di me, e cominciammo a vederci sempre più spesso... fino a quella maledetta notte, la prima volta in cui facemmo sesso.
La serata era stata perfetta: avevo preparato una cena giapponese che ai tempi era l’unica che mi riuscisse bene, e poi eravamo finalmente finiti a letto. La mia gatta Lucrezia continuava a girellare per la camera, innervosita dal mio comportamento ben diverso dal solito. Avevo stoltamente lasciato il telecomando quantistico sul comodino: mentre stavamo facendo l’amore mi accorsi con la coda dell’occhio che Lucrezia era salita sul comodino e stava schiacciando tasti su tasti, terminando con quello di invio dati; e il telecomando era puntato su noi due! Vidi con orrore il solito tremolio, ma non ebbi nemmeno il tempo di impietrirmi dalla paura, perché in quel preciso istante venni, e vi posso assicurare che non mi era mai capitato un orgasmo anche solo pallidamente paragonabile a quello. Ma solo il mattino dopo capii cosa era successo.
La mia eccitazione mentre eravamo arrivati al climax, unita al gran numero di tasti schiacciati da Lucrezia, doveva aver fatto scaturire una trasformazione davvero eccezionale, spostandoci di parecchio (e non potevo fare a meno di accorgermene!) all’interno dello spazio degli universi; il calore generato dalla trasformazione era così stato tale da distruggere completamente il telecomando quantistico, lasciando solo un pezzo di plastica e metallo fusi insieme. Ritornare all’universo precedente era ormai impossibile; sarei dovuto restare lì.
Mi crucciai per un po’, ma alla fine mi misi l’anima in pace: in fin dei conti la nuova situazione non era poi così malvagia. Dopo il primo periodo di ovvio mio assestamento, la relazione con Ale continuò benissimo, meglio di quanto avessi potuto sperare: dopo quel primo, fantastico amplesso perse infatti letteralmente la testa per me, e al piacere della compagnia reciproca si affiancò quello di un’intesa sessuale perfetta. Immaginare una vita l’uno senza l’altro ci sarebbe ormai stato impossibile. L’anno scorso ci siamo sposati e a marzo nascerà il nostro (speriamo primo) bambino: se sarà maschio lo chiameremo Marco. Ah, sì: il Marco di questo nuovo universo, che mi ha fatto da testimone di nozze, è molto più gentile con me dell’altro. Gli piace farmi da fratello maggiore e rievocare le nostre passate avventure, avventure che io ovviamente non posso conoscere ma a cui annuisco con convinzione e che ormai, a furia di sentirle, fanno parte anche del mio passato. Soprattutto non mi chiama più “testa d’uovo”, e non sapete quanto la cosa mi faccia piacere. Nessuna crisi di gelosia neppure con Ale. In questo universo i due non si erano mai conosciuti; quando li ho reciprocamente presentati è andato tutto liscio, e ora sono due compagnoni. C’era da aspettarselo, però: in fin dei conti mi vogliono entrambi bene, pur se in modo diverso.
Tutto perfetto, insomma, o quasi, se non per una cosa. In questi due anni non ho ancora fatto l’abitudine ad avere le tette: figuriamoci ora che sono incinta e mi sono ancora cresciute...
versione 2 - 9 agosto 2013