Uno, due, tre, quattro... mille... un milione... un miliardo... un fantastiliardo... Beh, che numero sia esattamente un fantastiliardo non è così certo, o perlomeno non saprei citare il numero esatto di Topolino in cui è stato definito formalmente. Sono capaci ad averlo fatto, sì. Però direi che siamo tutti d'accordo che ai numeri si può dare un nome, e che noi siamo abbastanza fortunati da poter dare un nome - in italiano, in inglese, in klingon o nella vostra lingua preferita - a ogni numero. No, ricominciamo da capo. Sicuramente possiamo dare un nome a ogni numero intero (o frazionario, o irrazionale algebrico). Dopo Cantor sappiamo infatti che i numeri reali sono "più infiniti" delle parole che abbiamo a disposizione; quindi se volessimo dare un nome a tutti i numeri reali, e non solo a pi greco o alla radice di due, siamo fregati in partenza: anzi, la percentuale di numeri a cui possiamo dare un nome è virtualmente nulla rispetto al totale. Ma questa è un'altra storia.
Limitiamo pertanto il nostro scopo e torniamo ai numeri interi, dove insomma si direbbe che siamo a posto. Qualunque numero finito uno scriva, lo possiamo leggere, sgolandoci al più con una sfilza di "miliardi di miliardi di miliardi", o al limite risparmiando un po' di voce sfruttando la norma CEE/CEEA/CE n.55 del 21/11/1994 che definisce che andando di mille in mille si hanno migliaia, milioni, miliardi, bilioni, biliardi, trilioni; poi si sono fermati, lasciando a Wikipedia l'onore di arrivare ai quadriliardi. Lo strano è che la norma CEE specifica le unità di misura tra le pieghe di una legge sul trasporto di merci pericolose: ma in effetti, anche solo sui numeri interi di cose strane ne abbiamo lo stesso!
Piccola digressione. Un'altra cosa che abbiamo imparato fin da bambini è che dato un numero possiamo sempre trovarne un altro dicendo "più uno!", come si ricorderà chi giocava a dire il numero più grande. L'osservazione è meno stupida di quanto si pensi, come vedremo. Detto in altro modo, un numero lo si può chiamare in tanti modi: ad esempio, "cento" è anche "novantanove più uno", oppure "dieci per dieci", o ancora "il numero di quadratini del quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo rettangolo i cui cateti hanno lunghezza rispettivamente sei e otto". Quanti modi abbiamo a disposizione per definire un numero? Non lo so. Probabilmente infiniti, ma in realtà la cosa non è che ci importi più di tanto. Quello che importa è per ogni numero abbiamo (almeno) una rappresentazione "economica", che cioè usa il numero minimo possibile di sillabe. A vedere gli esempi qui sopra non si capisce l'utilità di introdurre questi altri modi di chiamare un numero, ma ad esempio novecentonovantanovemila novecentonovantanove (venti sillabe) può essere espresso come "un milione meno uno" (otto sillabe: un bel risparmio!) Possiamo così decidere di chiamare ciascun numero con l'espressione che richede il minor numero possibile di sillabe: un'ottima idea, se abbiamo bisogno di risparmiare spazio.
A questo punto entra in gioco il signor G. G. Berry, che non era esattamente l'ultimo arrivato dato che era bibliotecario alla Bodleiana, una delle più importanti se non la più importante biblioteca di Oxford. Il signor Berry, poco più di cent'anni fa (era il 1904), ebbe l'idea di pensare a un numero che in fin dei conti un suo minimo interesse ce l'aveva: "il più piccolo numero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe". Si sa che i bibliotecari, quando si tratta di definire qualcosa, sono sicuramente bravi, no? Per amor di precisione, il testo originale inglese parla di "the least integer not nameable in fewer than nineteen syllables" (che in inglese dovrebbe essere 111.777, dice wikipedia); e sempre wikipedia afferma che in realtà Berry parlava semplicemente del più piccolo numero ordinale non definibile. (I numeri ordinali sono quelli che usiamo per contare "uno, due, tre...". Finché usiamo numeri finiti non c'è una differenza pratica con i numeri cardinali che dicono in un botto quanto è grande un insieme; con i numeri transfiniti sì, ma non è questo il momento di parlarne)
Questo numero, chiamiamolo b in onore di Berry, deve per forza esistere: in fin dei conti i numeri sono infiniti, e le frasi composte al più di trenta sillabe sono finite. Occhei, sarà probabilmente un numero molto grande, ma in linea di principio lo si può calcolare. Persino un costruttivista come Brouwer, che giusto in quegli anni stava lamentandosi di come l'infinito venisse usato in maniera un po' troppo disinvolta, non avrebbe avuto nulla da dire sulla correttezza della definizione. Ma era proprio così? Mica tanto. In effetti, se siete stati attenti, la frase "il più piccolo numero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe" di sillabe ne ha 25. Ma allora non ci può essere nessun numero con tale proprietà! Se ci fosse un siffatto numero b, infatti, automaticamente gli potremmo affibbiare la descrizione di cui sopra e quindi non è vero che non si può esprimere con meno di trenta sillabe. Ciò è indubbiamente berrybile.
Qui c'era qualcosa che non andava: e subito Berry chiese lumi all'indubbio esperto del campo: quel Bertrand Russell che pochi anni prima aveva dato un duro colpo al lavoro di una vita di Frege con il famoso paradosso del barbiere del villaggio che fa la barba solo e unicamente a chi non se la fa da sé. (per la cronaca, il barbiere si chiavama Andrea ed era una splendida fanciulla...). Russell ci pensò un po' su e alla fine sentenziò che il problema non si poneva: la definizione di b non era infatti valida perché era una metadefinizione, visto che non definiva un numero ma le proprietà del numero. Per fare un esempio più terra terra, se diciamo "tre ha tre lettere" non stiamo parlando del numero tre (anzi 3), ma della parola che lo definisce: il "lessicale", mi suggeriscono i miei amici filosofi. Il paradosso gli sembrò comunque interessante, tanto che lo inserì come primo nella lista di sette che presentò nei Principia Mathematica: e chissà, magari la teoria dei tipi, l'idea cioè che ci fosse una gerarchia di insiemi dove a ciascun livello gli elementi costitutivi potevano essere al più insiemi dei livelli inferiori, nacque anche pensando a questa differenza tra numero e definizione del numero. Non che tutta quella fatica gli sia servita a qualcosa, visto che venticinque anni dopo Kurt Gödel gli scombinò tutta la sua teoria. E paradossalmente, una cinquantina d'anni dopo, Greg Chaitin riprese in mano il paradosso di Berry, lo formalizzò usando un linguaggio di programmazione, e riuscì in questo modo a dare una nuova (e più semplice) dimostrazione del Teorema di Incompletezza di Gödel. Una vendetta postuma, insomma...
Che dire? State sempre attenti, quando vi mettete a contare, perché non si sa mai dove si nascondano le insidie!
©
Maurizio Codogno, 2 luglio 2008
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