Archivi categoria: pipponi-2018

Le simmetrie che non ci sono

Vi sarete sicuramente accorti che non ho parlato della vicenda del talk di Alessandro Strumia al 1st Workshop on String Theory and Gender (Nota che mi alienerà la totalità delle mie lettrici: l’idea di fare un colloquio con quel nome mi pare assolutamente balzana. Sarebbe per me stato molto più logico introdurre le quote rosa nelle presentazioni dei convegni. Il gender è evidentemente un problema, ma è un problema sociale, non della teoria delle stringhe)

Ad ogni modo, con una settimana di ritardo leggo il pippone di Andrea Giammarco e non ho molto da aggiungere. Innanzitutto, la presentazione è stata ritirata dal sito del Cern a causa della possibile diffamazione nella slide 15 (con nomi e cognomi di chi avrebbe fatto fuori Strumia). Io personalmente avrei semplicemente tolto la slide incriminata, ma non è un problema mio: tanto le slide sono recuperabili più o meno ovunque.

Quello che però mi pare molto più interessante, e che Giammarco mi ha fatto il favore di verificare, è che i dati portati da Strumia hanno un bias. Da un lato ha scientemente nascosto che per esempio nel famigerato concorso la commissione era composta da sette persone di cui una sola donna, e che i vincitori sono stati cinque ma dei risultati degli altri quattro non ha fatto parola. Ma soprattutto i suoi dati statistici non hanno tenuto conto di altri fattori che potevano modificare il risultato, un po’ come quando scrisse dei paper per spiegare un effetto che in realtà non c’era (per i non fisici, soprattutto i non fisici teorici: non è un peccato scrivere su qualcosa che poi si verifica essere un errore sperimentale, fintantoché l’articolo è scritto in modo scientifico e sensato. Tanto tutta la teoria delle stringhe funziona più o meno così :-) ) Nel caso in questione Strumia non ha tenuto conto delle condizioni al contorno, cioè che in genere per un maschio è più facile che per una donna poter aspettare una quindicina d’anni dopo il dottorato prima di ottenere un posto sicuro. Dal mio punto di vista di matematico questo chiude la faccenda indipendentemente da tutto il resto.

Il triste ferragosto di Rocco Casalino

Sulle frasi di Rocco Casalino riportate oggi da Repubblica avrei qualche domanda.

1. Come mai sono uscite dopo un mese e mezzo?

2. Vi ricordate che Casalino è tecnicamente un dipendente nel senso letterale della parola e non in quello pentastellato di “persona eletta”, e quindi non stiamo parlando di Gigino, Teone e quell’altro? (poi è pagato abbastanza bene per doversi anche fumare il ferragosto se serve, ma quella è un altra storia)

3. (Il vero problema) Vi rendete conto che abbiamo una classe politica che – almeno a detta di Casalino – non è capace di articolare un pensiero per conto proprio e ha bisogno di chi prepari loro la pappa pronta? (poi è vero che ad Autostrade per l’Italia sono messi ancora peggio perché non hanno neppure quello che gli articoli il pensiero, ma non stiamo a sottilizzare)

Ultimo aggiornamento: 2018-10-01 14:18

Altro che eterogenesi dei fini

Ieri si è parlato abbastanza dell’intervista che Stefano Lorenzetti ha fatto al neopresidente della Rai Marcello Foa (intervista che non ho letto). Ma se ne è parlato solo e unicamente per una domanda: se cioè Foa fosse ebreo. Oggi Lorenzetti si scusa. Il guaio è che tra le altre cose scrive «Si chiama eterogenesi dei fini: volevo difendere gli ebrei, che amo, e non ci sono riuscito».

Lasciamo perdere la pessima frase in stile “ho tanti amici gay”, e soffermiamoci sulle parole subito prima. Perché Lorenzetti dovrebbe “difendere gli ebrei”? E soprattutto, che diavolo importa se Foa è ebreo oppure no? (occhei, io probabilmente su queste cose casco dal pero. In Normale seguivo un corso di Lorenzo Foà e in facoltà sua figlia studiava matematica con noi: non mi è mai venuto in mente che quello poteva essere un cognome ebreo, e non me ne sarebbe fregato un tubo comunque) Quello che mi importa è che dica senza arrossire «Sono andati a pescare un tweet, ma non sono riusciti a trovare un solo articolo in cui criticassi irrispettosamente il presidente Sergio Mattarella», come se i tweet fossero qualcosa che non importa un tubo. Quello che mi importa è che in tutta l’intervista c’è solo una domanda a cosa farà in Rai (e non c’è la controdomanda che a me sarebbe venuta immediata: se «non tutta l’informazione è sembrata esente da settarismi», cosa pensa di fare per non avere settarismi di tipo diverso?)

Ecco. Più che di eterogenesi dei fini, io parlerei di armi di distrazione di massa.

Ultimo aggiornamento: 2018-09-28 11:53

Non troppo buona scuola

Quest’anno scolastico la maestra di italiano di Cecilia ha chiesto e ottenuto il trasferimento (a Monza, prima che qualcuno cominci a pensare chissà che cosa). Risultato: a oggi la classe continua a non avere la maestra. (Purtroppo poi si è anche ammalata la maestra di matematica, quindi i bimbi sono anche spesso smistati). A quanto mi è stato detto, la graduatoria degli aenti diritto è terminata, quindi la dirigente scolastica ora cercherà nelle liste a chiamata diretta: tradotto, persone che probabilmente hanno un’abilitazione ma non hanno vinto il concorso, e soprattutto persone che avranno una supplenza di un anno lasciandoci poi di nuovo nella stessa situazione. Nel frattempo la classe, quando non è smistata, guarda i film alla LIM – almeno glieli mettessero in inglese… – oppure fa disegnini.

Sulla mancanza di persone che abbiano voglia di trasferirsi dal sud a Milano per insegnare ci si può fare poco: tra l’altro, dato lo stipendio di un maestro e il costo della vita a Milano, non posso nemmeno arrabbiarmi troppo. Se però con l’ultimo concorso per la Buona Scuola non fosse stato inserito l’obbligo di selezionare tutte le province italiane, e non solo quelle in cui si sarebbe stati interessati a lavorare, non si sarebbe perso quasi un mese a cercare qualcuno che tanto non sarebbe venuto.

Ultimo aggiornamento: 2018-09-26 16:42

Italiasubs e i diritti magmatici

A quanto pare, la direttiva europea sul copyright è solo un esempio di quello che i grandi detentori di diritti intendono fare. Da sabato scorso il sito ItalianSubs ha chiuso i battenti, “a seguito di segnalazioni di utilizzi impropri e illeciti da parte degli organi di controllo”. Facciamo un passo indietro. Italiansubs nasce nel 2005 per “fare i sottotitoli”: scrivere cioè le battute che vengono fatte vedere in calce alle serie tv non doppiate in italiano. Qual è il mercato dei sottotitoli in Italia? Zero. Era zero anche prima che nascesse il sito: da noi si preferisce appunto doppiare i film, quindi averli con l’audio in italiano. I sottotitoli sono relativamente semplici da fare (una volta Anna aveva bisogno di aggiungerli a un clip e me la sono cavata senza problemi), e molti appassionati hanno pensato così di aiutare i diversamente poliglotti. Qual è l’uso dei sottotitoli da soli? Zero. E dove sta allora il problema? Lo spiega moooolto chiaramente il segretario generale della Fapav (Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali). Cito dal Corsera: «Il problema è che questi file potrebbero creare delle distorsioni al mercato. Spesso infatti chi scarica i sottotitoli lo fa per vedere in anticipo film e serie Tv ancora non tradotti e magari li visiona o li scarica illegalmente.»

Rileggete quella frase. È l’equivalente del dire “Chi compra benzina potrebbe usarla per fare bottiglie Molotov”. Non c’è nessuna prova che chi prende i sottotitoli non abbia comprato un DVD della serie di telefilm. Non c’è nessuna prova che chi ha guardato in anteprima i film con i sottotitoli non li guarderà una volta tradotti: se hai bisogno di usarli, la tua padronanza della lingua originale non è il massimo, farai comunque fatica a leggere mentre guardi, e avrai voglia di poterti poi godere la visione originale. Però la Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali vuole magmaticamente espandere il suo – lecitissimo – copyright sui contenuti prodotti dai loro aderenti anche a qualcosa di diverso. Non c’è una grande differenza con la tassa sulle citazioni, dove prendere due parole di un articolo non si configura più come cronaca ma come un copyright in più da dover soddisfare, un po’ come la lava che scende e prende tutto. Sappiate che il futuro sarà sempre peggio.

I silenzi assordanti

Ora vi racconto una storia. Un paio di settimane fa noi di Wikimedia Italia ci siamo chiesti cosa avremmo potuto fare per sensibilizzare le persone sulla nuova votazione per la direttiva copyright. Mentre a luglio c’era un “tutto o niente” e quindi eravamo andati giù con l’accetta, stavolta c’era la possibilità di modificare alcuni punti che non sarebbero nemmeno troppo controversi: se un’opera è orfana significa che non si sa di chi siano i diritti, quindi nessuno ci guadagnerebbe comunque, e ci saranno forse cinque opere in Italia su cui qualcuno ci guadagna davvero con le foto. La nostra strategia si è così concentrata su quei punti, lasciando perdere la tassa sulle citazioni e il filtraggio sugli upload che erano ormai noti.

A parte l’aver spedito agli eurodeputati una certa quantità di cartoline in cui i monumenti presenti sono stati cancellati a pennarello – ma mi sa che i nostri parlamentari non guardino la posta cartacea… – abbiamo pensato alla possibilità di avere lo spazio per un “op-ed”. Questo termine arriva dagli USA, dove indica in articolo in posizione “opposta all’editoriale”: in pratica una voce indipendente, che non rispecchia la posizione ufficiale del giornale ma permette al lettore di avere altre informazioni. Da noi non esiste un vero e proprio posto per questi articoli, ma in pratica li si trova nelle pagine culturali. Bene: mi sono messo il cappellino di portavoce di Wikimedia Italia e ho scritto una bella letterina al direttore della Stampa chiedendo un po’ di spazio e spiegando che non volevo parlare dell’articolo 11 ma degli altri temi. Risultato: zero, dove per “zero” intendo “nemmeno una risposta preconfezionata che dice che il tema non fa parte degli interessi del giornale”. Dopo due giorni, ho scelto di rivolgermi ad altri giornali, ovviamente senza copincollare ma pensando alle peculiarità del singola testata. Ho così preso i due maggiori quotidiani italiani, Repubblica e Corriere; ho saltato Il Sole-24 Ore perché Confindustria è schierata ancora più dei gruppi editoriali standard; ho provato con Il Foglio, come giornale di nicchia ma con una notevole influenza; non ho scritto al Fatto perché il suo stile è troppo urlato per l’articolo che avevo in testa; avrei scritto al Giornale ma nel colophon non ho trovato un indirizzo email e il mio tentativo di indovinarlo è fallito (ah, le sue pagine culturali sono ottime), e ho scritto ad Avvenire perché lo ritengo interessante, visto che dà spazio a temi che non sono così visibili negli altri media. Risultato: l’unico che ha risposto è stato Avvenire, e così ieri il mio testo è apparso sul quotidiano della CEI.

Vorrei fare due considerazioni. La prima è che a fianco del mio intervento ne è stato pubblicato uno a favore della riforma “così com’è” scritto da un eurodeputato di Forza Italia. Questo è giustissimo. Noi non volevamo l’appoggio di nessuno; il nostro scopo era fare conoscere le nostre posizioni. Avvenire ha pertanto scelto di avere un’altra campana, il che non era solo suo diritto ma anche suo dovere nei confronti dei suoi lettori. La seconda cosa è molto più triste, invece. Wikimedia Italia non sarà famosa quanto il Codacons, ma dopo tutti questi anni non si può nemmeno dire che sia del tutto sconosciuta. Possibile che le segreterie di direzione – crederete mica che la mail ufficiale dei direttori sia quella indicata in colophon? È ovvio che ci debba essere un filtro – non si degnino nemmeno di rispondere “crepa!”? Evidentemente sì. Pensateci su.

Peppiniello Conte

Mentre nella storia del concorso a cattedra il nostro PresCosMin ha fatto una figura da cioccolataio – fossi stato io, avrei detto “la domanda l’ho fatta quando ero un semplice professore, è ovvio che ora non posso fare quel concorso” e morta lì – io sono meno tranchant sul suo discorso per l’otto settembre. Peppino si trovava nel sud, dove in effetti una parvenza di governo nazionale si è avuto già dopo l’armistizio; ed è uomo del sud. Tenendo conto dei salti mortali che deve fare ogni volta per non scontentare nessuno da un lato e per far sapere che esiste dall’altro, non è che avrebbe potuto fare tanto di più; forse, visto che si trovava a Bari, un accenno al governo che dopo la guerra si trasferì armi e bagagli in Puglia avrebbe fatto tacere chi l’ha accusato di scambiare l’otto settembre con il venticinque aprile: ma confesso che non conosco il campanilismo locale e un’eventuale rivalità con Brindisi. Insomma, non esageriamo.

Ultimo aggiornamento: 2019-05-01 19:23

Torna la direttiva sul copyright

Come forse ricordate, il voto di luglio all’Europarlamento non aveva cancellato la direttiva sul copyright, ma semplicemente spostato l’esame dalla commissione JURI alla plenaria. Il 5 settembre scadrà il tempo per proporre emendamenti e il 12 si voterà. All’avvicinarsi della data, i vari gruppi di lobbisti affilano le armi per quanto riguarda gli articoli più importanti. Gli editori, per esempio, puntano moltissimo sulla Google Tax, o se preferite sul diritto di ricevere un compenso da parte di chi raccoglie i link ai vari articoli di giornali su un certo argomento: in pratica, l’articolo 11 della direttiva. Domenica scorsa Le Monde ha pubblicato un articolo di Sammy Katz, corrispondente da Baghdad di France Press, che fa notare alcuni punti indubitabili: il buon giornalismo costa, Google e Facebook non hanno giornalisti, e i due OTT (Over The Top, le aziende che si basano su raccolta e condivisione di risorse create da altri) fanno miliardi di utili “a sbafo”.

Tutto vero. Ma, come Guido Scorza fa notare, da queste premesse non segue necessariamente un testo dell’articolo 11 come quello presentato a luglio. Premesso doverosamente che non stiamo parlando di articoli copiati verbatim o quasi – questa è pirateria bella e buona, ma non sono certo gli OTT che la fanno – e premesso che ci mancherebbe solo che le URL fossero toccate, a meno che non si voglia chiudere Internet (anche se in effetti è raro trovare articoli dei nostri quotidiani online con link esterni, forse si vogliono preparare alla possibilità) resta tutta la via di mezzo.

Un articolo ha un’URL, un titolo, un eventuale catenaccio, un testo. Dove si può porre il limite per definire il materiale preso dall’autore originale un “furto di attenzione”? Il mio pensiero naïf è “quando non mi viene voglia di aprire il link e andare a leggere la notizia completa”. Peccato che non funzioni: i titoli acchiappaclic passerebbero il discrimine (occhei, io non li apro mai nemmeno dalle pagine web dei giornali, ma so di essere un’eccezione) mentre spesso un titolo e tre righe di testo sono sufficienti per farsi un’idea. Ma in questo caso possiamo davvero dire che l’articolo in questione è costato tempo e fatica? Non lo so. Diciamo che sarebbe bello parlarne senza preconcetti e trovare una soluzione sensata. (E ricordo sempre che nella formulazione attuale dell’articolo 11 Wikipedia potrebbe citare l’URL della sua fonte, ma non il titolo dell’articolo. È quello che si vuole?)

Ultimo aggiornamento: 2018-08-28 20:07